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ARCHIVIO STORICO DELLA CALABRIA
Nuova serie

A cura di Giovanni Pititto



ARCHIVIO STORICO DELLA CALABRIA - Nuova serie
A cura di Giovanni Pititto

Fra i contenuti:

SEZIONE MILETO: 


ITALIA. CALABRIA. MILETO ANTICA. ABBAZIA DELLA SS.MA TRINITA'. SEPULCHRUM (?) COMITIS ROGERIJ.





La questione della sepoltura di Roger d'Hauteville, conte di Calabria e Sicilia; - condottiero normanno e padre del re Ruggero II; - nonché fratello del duca Roberto il Guiscardo, è un problema ancora irrisolto. E forse come tale, rimarrà. 


Varii ed in tempi diversi si sono espressi in merito a quel reperto. 




    1999. Giuseppe Occhiato, Vicende dei sarcofagi miletesi (1).




    (Giuseppe Occhiato, Mileto, 1934 – Firenze, 28 gennaio 2010)

    "Fra i tanti problemi presentati dai due sarcofagi miletesi, attribuiti per lunga tradizione, l’uno, a Ruggero I e, l’altro, ad Eremburga, sua seconda moglie, quello di ricostruire la cronologia delle vicende patite dai due manufatti nel corso dei secoli è certamente il minore. Ben altra cosa è, infatti, affrontare i numerosi aspetti molto più essenziali che li riguardano: e qui mi limito a citarne solo alcuni, quali, in primo luogo, il problema concernente la loro provenienza (Hipponion o Roma antica?), o quello dell’attribuzione stessa dei due reperti (soprattutto il sarcofago cosiddetto di Eremburga: non potrebbe essere appartenuto piuttosto a Giuditta, la prima moglie di Ruggero? E sulla base di quali argomentazioni è stato attribuito a Eremburga?) e, infine, il problema dei problemi, quello più affascinante e più lungamente dibattuto, riguardante la trasformazione della tomba di Ruggero in sepoltura a baldacchino: sicuramente opera di un Pietro d’Oderisio, ma eseguita quando, nel XII o nel XIII secolo? E su richiesta di quale committente, la vedova Adelaide o il figlio Ruggero II, oppure la stessa abbazia o addirittura la corte angioina di Napoli?

    Non sono questioni semplici da risolvere, e Lucia Faedo, Alfonso De Franciscis, Francesco Negri Arnoldi, P. C. Claussen, Ingo Herklotz, Patrizio Pensabene e Marilisa Morrone, che le hanno affrontate, hanno concretamente portato avanti la ricerca con lavori che, pur contrastando spesso nelle conclusioni, costituiscono però degli importanti contributi alla graduale scoperta della verità. Gli studi concernenti il riutilizzo del materiale classico reperito nella Mileto normanna sono oggetto in questi giorni di approfondimenti da parte di P. Pensabene e di M. Morrone, i quali si occupano rispettivamente, l’uno, del materiale architettonico e, l’altra, del sarcofago di Ruggero, e sembra proprio che quest’ultima studiosa, sulla base di documenti iconografici mai prima presi in esame, stia per dire una parola pressoché definitiva circa l’identità del marmorario romano Pietro di Oderisio cui si deve l’allestimento del sarcofago ruggeriano in forma di monumento a ciborio.


    Lo scopo di queste pagine è, tuttavia, meno ambizioso, giacché qui si vuole soltanto delineare cronologicamente le varie peripezie dei due sarcofagi: vicende piuttosto complesse, a volte contenenti datazioni erronee, spesso anche riferite in modo confuso o incompleto. Se ne offre, pertanto, un breve compendio esposto in senso diacronico, nel tentativo di porre ordine nel viluppo delle notizie sparse qua e là in testi, fra l’altro, non sempre facilmente reperibili.


    Ruggero moriva a Mileto nel giugno del 1101, di angina pectoris. Il giorno solitamente ricordato della sua morte è il 22, ma potrebbe anche essere un altro dello stesso mese o di quello successivo, giacché le testimonianze contenute nei necrologi dell’epoca sono discordi. Così come sono discordi le attestazioni dell’età del conte, che alcuni vorrebbero morto a settantadue, altri a settanta anni. Romualdo Salernitano lo fa morire all’età di cinquantun anni, ma probabilmente si tratta di una svista, e va invece corretta in sessantuno, età accettata oggi da gran parte degli storici medievalisti (A. Hofmeister, D. J. A. Matthew, G. A. Loud, H. Houben). Ruggero sarebbe, perciò, giunto nell’Italia meridionale quand’era ancora un giovinetto di quindici o sedici anni, e non di ventisei come si è ritenuto finora. Poiché Romualdo di Salerno afferma che morì nel quarantesimo anno a partire da quando era diventato conte, ossia nel 1060, anche l’anno della sua nascita va spostato in avanti rispetto a quello fin qui tradizionalmente accettato e portato al 1040. L’imprecisione delle date è dovuta soprattutto al fatto che i cronisti del tempo (G. Malaterra, Romualdo Salernitano, Amato di Montecassino e Guglielmo di Puglia) si basavano soprattutto su fonti orali. Con l’ipotesi del 1040 quale anno di nascita concorda il Malaterra quando afferma che Ruggero arrivò nel Mezzogiorno mentre era di «iuvenilis aetas» (I, 19). E quella di Ruggero sarebbe in effetti un’età molto giovanile, secondo i parametri odierni, ma per l’epoca no: si pensi che Ruggero II venne proclamato «miles», ossia cavaliere, all’età di sedici anni, età in cui all’epoca si era considerati già maggiorenni. Basti ricordare che l’adoubement cavalleresco poteva avvenire ancora prima, dopo il compimento del quattordicesimo anno, anche se non esisteva un’età precisa per essere sottoposti al rito suddetto (H. Houben, E. Cuozzo).


    Esaminata così en passant la questione dell’età del gran conte al momento della sua morte e solo per offrire un saggio della complessità dei problemi insiti nella ricostruzione storica di fatti e personaggi di età così lontane, seguiamo ora le vicende dei due sepolcri, a partire da quello di Ruggero (opera giudicata come appartenente alla prima metà del III sec. d. C.), entro il quale il Conte fu tumulato dopo la sua morte. Il corpo della contessa Eremburga, morta nel 1089, era stato composto in altra urna (del II sec. d. C.) situata non si sa bene se, come quella del marito, nella navata destra oppure in altro punto della chiesa abbaziale della SS. Trinità, edificio che il gran conte aveva destinato ad essere anche il centro spirituale e il sacrario familiare per gli Altavilla di Mileto, così come Venosa e Sant’Eufemia lo erano per gli altri Altavilla. La cittadina di Mileto, infatti, anche se non era mai divenuta sede stabile di governo, aveva costituito per Ruggero il suo punto di riferimento e di aggregazione più importante sia sul piano politico e strategico che su quello affettivo. Ad essa egli era rimasto sempre legato come a quell’oasi di pace e di ristoro a cui amava sempre ritornare durante e dopo le fatiche della conquista.


    Accenniamo anche brevemente, prima di passare all’argomento specifico di queste pagine, al problema dell’originaria provenienza delle due casse marmoree. Sappiamo che in età medievale la scultura, e non solo quella funeraria, guardava anche ai modelli classici e romani come fonte d’ispirazione e di imitazione (A. Giuliano). Da Roma o da Ostia proveniva tutta una serie di sarcofagi che erano stati riutilizzati in numerosi centri italiani, da Genova a Firenze, da Amalfi a Messina, da Cagliari a Palermo, tanto per fare qualche esempio. Oltre che appropriarsi degli esemplari già pronti, in tutte le aree normanne dell’Italia meridionale e della Sicilia committenti e artisti ne creavano anche di nuovi, in qualche caso utilizzando il porfido di antiche colonne romane, abbozzandoli o eseguendoli nella stessa città eterna, come quelli della cattedrale di Palermo e del duomo di Monreale. Non solo, ma si giunse presto perfino a copiare alcuni modelli, ricreando de novo sarcofagi all’antica, come quelli di Ruggero e di Enrico, fratelli di Guglielmo II.


    In questo clima di riviviscenza del mondo classico che vedeva l’elaborazione di nuovi sarcofagi in porfido e in marmo, eseguiti o abbozzati da marmorari di età normanna nella stessa Roma, si inseriscono i due sarcofagi miletesi: da considerare, però, non quali opere appositamente create per Ruggero e la moglie ma come esemplari originali fortemente indicativi di aulicità e di magnificenza, in quanto rappresentativi dell’allegoria del potere conseguito, riconducibile a quel «codice di prestigio del sepolcro che va lentamente formandosi fin dall’alto Medioevo» (Faedo). Sarebbe, così, da escludere la provenienza, fin qui concordemente e tradizionalmente accettata, che l’area di provenienza fosse l’antica Hipponion, dalla quale effettivamente molto altro materiale di spoglio, sculture, iscrizioni, elementi architettonici di pregio, venne trasferito a Mileto per essere riutilizzato nell’abbellimento dei due edifici sacri ruggeriani, la chiesa abbaziale e la cattedrale, e da accettare invece come molto probabile la provenienza dei due sarcofagi miletesi da Roma o da Ostia. È la tesi ventilata, per quanto riguarda l’urna di Ruggero, da L. Faedo e sostenuta da P. Pensabene, il quale, pur lasciando intravedere la possibilità che il sarcofago romano possa essere stato già in epoca antica utilizzato da qualche grande proprietario ipponiate o delle zone contermini, è dell’opinione che possa anche essere giunto direttamente da Roma in un momento più tardo rispetto alla morte del conte, ossia all’epoca della realizzazione del monumento funerario da parte del marmorario cosmatesco Pietro di Oderisio.


    Fin qui le acquisizioni degli ultimi studi circa il problema dell’area di provenienza dei manufatti in questione. Riprendiamo ora il discorso delle peripezie a cui le due urne furono sottoposte nel corso dei secoli.


    È da notare preliminarmente che dell’urna di Eremburga si comincia a parlare solo a partire dal 1693, con G. B. Pacichelli. Essa venne spesso scambiata dagli eruditi per la tomba della terza moglie di Ruggero, Adelaide, che invece è sepolta nella cattedrale di Patti, dove un’epigrafe ricorda inequivocabilmente la presenza del corpo della regina, morta a Patti nel 1118, all’età di circa cinquanta anni. Diverse altre attribuzioni sono state avanzate nelle varie epoche, fra cui quella che dovesse contenere le spoglie dei figli del conte. Quanto alla tomba di Ruggero, invece, non vi sono mai stati forti dubbi circa la pertinenza della cassa marmorea. Di essa si ha la prima notizia già nel XIII secolo, e precisamente per merito della Cronaca di Fra’ Corrado, resa nota dal Muratori, il quale riporta pure per la prima volta il famoso distico di versi leonini che connotava la sepoltura del conte:


    Linquens terrenas migravit Dux ad amoenas

    Rogerius sedes, nam Coeli detinet aedes.

    Fino al 1659, anno del terremoto che abbatté al suolo la chiesa e il monastero della SS. Trinità, il sarcofago ruggeriano si trovava addossato alla parete laterale della navata destra della chiesa abbaziale, secondo quanto risulta dalla nota planimetria del 1581 di Ottavio Micosanto custodita nell’Archivio del Collegio Greco di Roma. Da altre fonti (Chronicon Siciliae, G. Barrio, R. Pirro, S. Mercati, G. B. Pacichelli) si sa che già al momento del seppellimento di Ruggero erano stati posti sul sepolcro i sopra citati versi leonini. Sembra però che la prima attestazione della sepoltura ruggeriana possa essere riportata ad una data più antica di quella di Fra’ Corrado, e precisamente al 1197, anno a cui risale un manoscritto medievale contenente una raffigurazione miniata del mausoleo (Cod. Bernense 120, f. 3), già ricordata da L. Faedo che, sulla scorta di J. Deer, l’attribuisce al re Ruggero II, mentre M. Morrone, sulla base di una nuova lettura della medesima miniatura, l’attribuisce più pertinentemente al padre, Ruggero I. Ciò consente, inoltre, alla studiosa di confermare, riprendendo l’ipotesi già avanzata dalla Faedo, una datazione alta da attribuire ai lavori di abbellimento della tomba di Ruggero, eseguiti da Pietro di Oderisio molto probabilmente nei primi decenni del XII sec., su committenza di Ruggero II, figlio e successore del gran conte.


    A parere della stessa studiosa, si dovrebbe pure alla presenza del maestro cosmatesco in Mileto la realizzazione della tomba di Eremburga, per  la quale venne riutilizzata un’urna della classe dei sarcofagi attici, databile, secondo A. De Franciscis, alla prima metà del II sec. d. C.


    Nel disegno romano del 1581 non vi è tuttavia traccia dell’urna di Eremburga, che perciò è da supporre fosse situata altrove. Né se ne trova menzione nella Historia Chronologica dell’abate gesuita Diego Calcagni, vicario dell’abbazia, il quale riteneva che il corpo della contessa dovesse trovarsi tumulato nello stesso sarcofago del marito. Era, però, questa, opinione abbastanza diffusa, tanto da essere raccolta dall’ignoto visitatore che poté osservare la chiesa abbaziale anteriormente al sisma del 1659, lasciandone una breve notizia, pubblicata da S. Mercati. A quell’epoca il sarcofago non appariva nella forma architettonica ipotizzata dalla Faedo, con ciborio o baldacchino, anzi l’anonimo visitatore seicentesco, a proposito del fatto che esso si presentava come «opera antica di non molto artificioso disegno, e priva d’ornamento», avanza due supposizioni: la prima, che non fosse più collocato nel suo posto originario – il che, fra l’altro, giustificherebbe la scomparsa del baldacchino – e, la seconda, che nell’avello potesse essere stato seppellito non il conte Ruggero ma uno dei tanti normanni dello stesso nome.


    Il cambiamento di posto sarebbe stato motivato dalle cattive condizioni statiche dell’edificio, compromesso da innumerevoli terremoti. Già all’epoca, infatti, la chiesa aveva « in molte parti sentito il pregiudicio del tempo, e di già in più d’un luogo riparata con nove altre imminenti rovine novo risarcimento richiede ». Ciò giustificherebbe anche il fatto che nel disegno romano del 1581 non si riconosce alcun indizio che faccia intravedere una costruzione di tipo architettonico sopra il sepolcro.


    Il terremoto del 1659 non risparmiò né il monastero né la chiesa della SS. Trinità. I due sarcofagi vennero travolti nella rovina degli edifici e, durante i lavori di ricostruzione del monastero, quello del conte, secondo la testimonianza del Calcagni, trovò riparo nel cimitero adiacente alla chiesa abbaziale dove rimase negletto per diversi anni, finché non poté essere riportato dentro la chiesa appena ricostruita, a rioccupare il suo vecchio posto nella navata destra, in mezzo a due colonne, ricondotto «in meliorem, et nobiliorem formam». Uguale sorte dovette subire, crediamo, l’urna di Eremburga, anche se ancora di essa non emerge traccia in nessun documento.


    La ricostruzione delle fabbriche monastiche e della chiesa si era protratta per un tempo piuttosto lungo, per circa un quarantennio, cioè, a partire dal 1660, versando i monaci in non floride condizioni finanziarie, tanto è vero che gli abati commendatari e i vicari dell’abbazia, fra cui lo stesso Calcagni, erano stati costretti a vendere numerosi preziosissimi marmi che non era stato possibile riutilizzare. La ricostruzione barocca dell’abbazia aveva avuto termine nel 1698, ma quella della chiesa doveva essere stata già completata qualche anno prima, almeno nel 1693, se è vero che un illustre viaggiatore del tempo, l’abate G. B. Pacichelli, aveva avuto modo di visitarne la fabbrica a quella data, come egli stesso ci informa in una delle sue Lettere pubblicate poi a Napoli nel 1695, nella quale ci lascia una descrizione della chiesa e del sarcofago di Ruggero. Ed è con il Pacichelli che abbiamo pure  la  prima  menzione dell’urna poi detta di Eremburga («una cassa con più figure»), che egli però, come si è detto prima, attribuisce, secondo le credenze locali, ai figli del conte.


    Con la ricostruzione barocca l’apparato decorativo dell’urna del conte dovette senz’altro subire una trasformazione rispetto al sepolcro medievale. Ma, prima di parlare di questa trasformazione, è opportuno chiarire quale fosse l’aspetto originario del monumento, cercando di precisarne pure meglio l’identità dell’autore. Come si presentava, infatti, in origine la sepoltura di Ruggero? Ed è verosimile che abbia provveduto lo stesso conte a far trasportare un sarcofago da Roma o da Ostia o da Hipponion che sia, pensando in vita ad allestire per sé un mausoleo degno del rango e della fama acquisita? O non è più plausibile pensare che il suo sarcofago e quello di Eremburga fossero stati trasportati da Roma insieme con la venuta dello stesso marmorario cosmatesco chiamato probabilmente da Adelaide o da Ruggero II durante la prima metà del XII secolo?


    È verso questa tesi che propende M. Morrone, avvalorando la congettura di L. Faedo, mentre Negri Arnoldi e Claussen la confutano, affermando che il Petrus Oderisius citato nell’epitaffio scolpito sulla tomba di Ruggero sarebbe soltanto lo stesso autore della sepoltura di Clemente IV a Viterbo e di altri monumenti funerari e socio di Arnolfo di Cambio nel ciborio di San Paolo a Roma, operante nel terzo quarto del sec. XIII e di cui si perdono le tracce dopo il 1285. Per la Morrone il Petrus di Mileto altri non sarebbe – e le motivazioni con cui avvalora l’ipotesi sono convincenti – che un omonimo della stessa stirpe di marmorari, per cui si avrebbe un innalzamento alla prima metà del XII sec. della datazione del monumento, «che sarebbe stato così più plausibilmente realizzato dal figlio e successore del gran conte, il re Ruggero II, e non in età angioina».


    Che aspetto aveva il monumento ipotizzato dalla Faedo? Si è già visto che le poche fonti di cui disponiamo (il disegno del 1581 e la breve descrizione anonima seicentesca riportata dal Mercati) sono mute in proposito; ma la studiosa, sulla scorta di rimandi a miniature e ad affreschi dell’XI sec. e di analogie con altre forme funerarie principesche coeve, normanne e non, o di età tardo-antica, nonché del ritrovamento di un frammento di architrave in porfido, avanza l’ipotesi di una sepoltura con copertura a edicola, o baldacchino, o ciborio, con fastigium e trabeazione in porfido, sostenuto da tre colonne poste davanti al lato lungo del sarcofago, al centro della quale, su un podio, poggiava il sarcofago stesso: era, come afferma la stessa studiosa, «un momento autoritario di glorificazione laica » già affermato dai normanni con la realizzazione delle tombe porfiree di Palermo e Monreale. Il distico leonino dell’XI sec. era venuto a far parte della stessa epigrafe che conteneva pure il nome del marmorario romano autore del monumento.


    Diverso, invece, l’aspetto assunto dal sepolcro dopo la ricostruzione barocca. Secondo il Calcagni, il sarcofago, che aveva ripreso il posto occupato prima dell’evento sismico, era stato situato in mezzo a due colonne di marmo, privo di altra cornice architettonica, quindi senza più ciborio, che o al momento del sisma non esisteva già più o si era rotto in più pezzi in modo tale da non poter essere più ricomposto. La nuova sistemazione conservava però qualcosa del monumento antico. Il sarcofago era, infatti, sotto l’antica iscrizione, o epitaffio, scolpito sulla parete alla quale era addossato, parete che non era crollata durante il sisma, come sappiamo dal Calcagni. L’iscrizione, riportata dal vicario gesuita, era la seguente:


    Rogerius Comes Calabriae, et Siciliae. Hanc sepulturam fecit Petrus Oderisius magister Romanus in memoriam. Hoc quicumque leges, dic, sit ei requies.


    È strano, tuttavia, che l’ignoto viaggiatore citato dal Mercati non abbia notato tale epitaffio. Anzi, a questo proposito, egli annota: « Sopra di essa [cassa marmorea] nel muro veggonsi gli avanzi di alcuni caratteri greci, ma consumati dal tempo in guisa che non se ne comprende il sentimento». Questo che cosa significa? Che l’iscrizione originaria si era in gran parte sgretolata e l’epitaffio era una ricostruzione successiva, come suppone, fra l’altro, L. Faedo? Comunque la si voglia intendere, sta di fatto che l’iscrizione ci dice in modo inequivocabile che la sepoltura di Ruggero venne eretta da Petrus Oderisius e che questi ne allestì un monumento funebre coronato da un baldacchino in porfido, il marmo dei re.


    Il già ricordato G. B. Pacichelli ci offre, in merito all’iscrizione, qualche elemento in più rispetto al Calcagni. Egli, pur riportando la medesima frase con qualche errore di trascrizione, attesta che era contenuta dentro un cerchio di marmo («nel giro di un marmo sferico») posto sopra l’urna. E un’ulteriore aggiunta ci viene ancora dal Calcagni, il quale, nell’Appendix alla Historia Chronologica, riferisce come, concluso il restauro del sepolcro, vi venisse apposta una lunga epigrafe commemorativa, dettata indubbiamente da lui stesso che all’epoca era vicario dell’abbazia, in latino (da lui riportata integralmente nell’Appendix), di cui facevano parte anche i due versi leonini già noti, e che si concludeva con la seguente attestazione: Instaurata tanti Principis, et fundatoris memoria. Anno MDCC. Il restauro, quindi, era stato ultimato nell’anno 1700.


    Ancora una testimonianza, del 1762, ci completa l’immagine definitiva assunta dalla sepoltura, che, come si è potuto constatare, aveva contemporaneamente del vecchio e del nuovo. Ci proviene da uno dei tanti oppositori dell’abbazia, l’avvocato Natale M. Cimaglia. Mentre il Calcagni aveva dettato la lunga epigrafe per riaffermare la fondazione del monastero da parte del conte Ruggero e contrastare così le rivendicazioni del vescovi del luogo con i quali gli abati erano in lite da secoli, il Cimaglia, difensore delle pretese della parte avversa, confuta in una requisitoria pubblicata nel 1762 l’autenticità dei documenti abbaziali e definisce l’epigrafe del vicario come una «sciocca e capricciosa iscrizione», cercando di screditare la storia della fondazione dell’abbazia da parte di Ruggero e negando persino l’appartenenza del sarcofago allo stesso conte. Comunque sia, egli però ci lascia al contempo una più precisa e dettagliata descrizione del sepolcro. Apprendiamo così nuovi particolari, e cioè che il sarcofago era stato posto su di un basamento sul quale correva la lunga epigrafe del Calcagni, includente anche la nota coppia di versi leonini. Ma un altro elemento ci offre ancora l’avvocato Cimaglia, più importante per la ricostruzione dell’epigrafe antica scolpita da Pietro di Oderisio. Egli infatti osserva che sul muro retrostante all’avello si leggeva, distribuita in due grandi cerchi, la scritta Hanc sepulturam fecit Perus Oderisius Magister Romanus Hoc cuicumque leget dic sit ei requies, mentre, al di fuori dei cerchi e disposta in forma di croce, compariva la scritta Rogerii Comitis Calabriae et Siciliae.  Molto  probabilmente, anzi quasi sicuramente, si  trattava dello stesso «marmo sferico» già notato dal Pacichelli, marmo che non si era disgregato nel terremoto del 1659 e che non si disgregò nemmeno successivamente, in quello del 1783, tanto è vero che Pompeo Schiantarelli ce ne ha potuto lasciare il disegno in una delle tavole (Rame VII) dell’Atlante allegato all’Istoria de’ fenomeni del tremuoto di Michele Sarconi.


    Il Claussen rielabora la scritta, ridandole l’originario senso logico; essa pertanto suonerebbe così: Hanc sepulturam fecit Petrus Oderisius magister Romanus in memoriam Rogerii Comitis Calabriae et Siciliae. Hoc quicumque leges dic sit ei requies. Inoltre, lo studioso tedesco, sulla scorta della tavola dello Schiantarelli e della descrizione del Cimaglia, ne dà la ricostruzione grafica.


    È dal Calcagni prima e dal Cimaglia dopo, pertanto, che veniamo a conoscere l’intervento del marmorario romano Pietro di Oderisio, cosa che ha aperto, come si è già accennato, numerose questioni, soprattutto tre: circa la committenza; circa l’identità dello stesso artista e circa il tipo di abbellimento eseguito. Su tutti e tre si è già detto in precedenza quanto qui si poteva dire. Su quello della committenza si ritorna ora soltanto per riunire in sintesi le varie posizioni degli studiosi, anche perché sembra che possa essere quanto prima aggiunta una parola definitiva da parte di M. Morrone.


    Per la Faedo, la committenza sarebbe legata ai familiari prossimi del conte, o la vedova Adelaide o il figlio Ruggero II e, conseguentemente, l’abbellimento si collocherebbe nella prima metà del XII sec., prima però della morte di Ruggero II (1154). Per il Claussen, invece, è la stessa abbazia che, vedendosi minacciata nei propri diritti già a partire dal XIII sec. dai vescovi locali, cerca di riaffermare la fondazione regia del monastero, legandola con lo splendido monumento funerario cosmatesco alla perpetua memoria del suo fondatore. La Morrone, invece, riprende l’ipotesi della Faedo: il Petrus dell’epigrafe è solo un omonimo vissuto assai prima del Petrus attestato nel XIII sec. e identificato dal Negri Arnoldi (seguìto dal Claussen e da Ingo Herklotz) con il maestro della tomba di Clemente IV a Viterbo. Vi è, tuttavia, anche nello Herklotz una indicazione rivelatrice, che dovrebbe convalidare le ragioni della Morrone: « evidentemente gli Oderisio erano una di quelle famiglie di artisti rintracciabili nella Roma medievale per varie generazioni ». Che più? È sperabile, pertanto, che l’ipotesi della studiosa si tramuti presto in certezza sulla base delle nuove acquisizioni documentarie e delle ricerche da lei stessa portate avanti.


     In seguito al terremoto del 1783, che abbatté per la seconda volta le fabbriche della SS. Trinità, i due sarcofagi, piuttosto danneggiati, rimasero incustoditi e abbandonati a se stessi tra le rovine della chiesa.


    Seguiamo ora le vicende post-terremotali dei due reperti, cercando di recuperare il fil-rouge della cronologia e di ricostruire il percorso che li vide finalmente approdare entrambi al Museo Nazionale di Napoli. È possibile fare ciò sfogliando la folta letteratura che si è venuta formando dal 1784 ad oggi, attraverso le descrizioni, le lettere e le ricerche che numerosi viaggiatori, eruditi locali e studiosi, italiani e stranieri, (fra i quali si ricordano N. Ph. Desvernois, M. Sarconi, A. De Custine, A. Dumas padre, V. Capialbi, H. W. Schulz, D. Salazar, H. Gally-Knight, F. Avellino, L. de la Ville sur-Yllon, M. Morelli, P. Orsi, C. Naccari, C. A. Willemsen e D. Odenthal e B. Haarlov) hanno lasciato intorno ai due manufatti. Ai loro scritti, pertanto, si rimanda per un quadro completo dell’analisi critica svoltasi attorno ai sarcofagi, non essendo questo lo scopo delle presenti pagine. Perciò, avendo già preso in esame le varie posizioni degli studiosi circa le principali questioni presentate dai due monumenti, proseguiamo accennando solo alle peripezie cui essi andarono incontro dopo la tremenda catastrofe sismica del 1783.


    Si è già detto che erano rimasti in abbandono tra le rovine dell’edificio ecclesiale. Ed ivi negli anni seguenti vennero visitati e amorevolmente descritti e studiati da numerosi degli eruditi e studiosi sopra ricordati.


    Nel 1813, finalmente, per l’interessamento del generale francese Nicole Philippe Desvernois e del sindaco del tempo Nicola Francesco Taccone, l’urna di Eremburga ed il coperchio del sarcofago di Ruggero (per ora solo il coperchio, spezzato in due grossi frammenti) furono ricuperati e, insieme a molto altro materiale raccolto tra le macerie dei due edifici normanni, trasportati nella nuova Mileto, dove furono però ancora una volta lasciati all’aperto, in un prato adiacente alla nuova cattedrale, esposti alle ingiurie del tempo e alle offese degli uomini.


    Altro materiale intanto veniva ricuperato fra i campi di rovine della città per andare ad abbellire le nuove abitazioni dei miletesi. Fra le altre cose, un importante frammento dell’urna di Eremburga venne salvato da Antonino Romano, Sindaco dei Nobili e uno dei primi sindaci della città ricostruita: assieme a molti altri pezzi sculturali e architettonici, sia di età classica che medievale e posteriore, esso venne destinato ad abbellire il giardino della sua abitazione nella nuova Mileto. Tutto questo notevole patrimonio sculturale è ora (dal 1999) passato alla proprietà del vescovo di Mileto, e molto probabilmente andrà ad incrementare il patrimonio di opere conservate nel locale Museo Statale.


    A causa dell’ingombro e del peso che ne impedivano il trasporto, la cassa del sarcofago di Ruggero era stata lasciata sul posto, dove alcuni decenni appresso, e precisamente nel 1837, veniva segnalata da un viaggiatore straniero, H. Gally-Knight, che la ricorda abbandonata in mezzo ai vigneti che circondavano l’abbazia, e attorno agli stessi anni 1835-1837 veniva accuratamente descritta ed analizzata da Vito Capialbi, il quale nel 1838 affrontava pure il problema critico presentato dall’urna di Eremburga, ancora «esposta alle intemperie ed agli insulti degl’ignoranti e della vil plebaglia».


    Giunta nella nuova Mileto, l’urna di Eremburga venne per qualche tempo riutilizzata come vasca, come apprendiamo dal De Franciscis: due fori praticati in basso in uno spigolo della cassa sono l’evidente segno di tale riutilizzo. Lo scrittore A. Dumas padre la rammenta nei suoi Souvenirs del viaggio da lui compiuto in Calabria nel 1835. Egli afferma che, attraversando la piazza dove sorgeva la villa comunale, ha modo di scorgere «una tomba antica raffigurante la morte di Pantesilea», una delle Amazzoni, elemento, questo, che si riferisce chiaramente all’urna di Eremburga, sui cui lati si svolge, come sappiamo, un rilievo con Amazzonomachia, e ne fa quindi eseguire uno schizzo dall’amico Jadin.


    Finalmente, nel 1840, sia il sarcofago di Eremburga che quello di Ruggero, ricuperato quasi al completo e ricomposto nelle sue parti, venivano trasportati a Napoli per essere ospitati nell’allora Regal Museo Borbonico.  Sul finire del secolo, quello di Ruggero, per influsso di D. Salazar, il quale riteneva che il sarcofago fosse copia normanna di altro sarcofago antico e perciò da considerare piuttosto come documento della fase normanna che come originale classico, veniva trasferito nel Museo di San Martino. Qui rimaneva fino al 1948, anno in cui veniva ricondotto ancora nel Museo Archeologico Nazionale, moderna denominazione del vecchio museo borbonico, e lì tuttora si trova. L’urna di Eremburga, invece, era ancora custodita presso lo stesso Museo Borbonico (quindi Museo Archeologico Nazionale), relegata però nei depositi, tanto che di essa si era persa ogni traccia sì da essere ritenuta irreperibile fin quasi ai nostri giorni (Willemsen-Odenthal).


    Queste le vicende dei due manufatti sino alla metà del secolo appena passato. Il resto è cronaca dei nostri tempi. Mentre la tomba di Eremburga era posta in oblio, il sarcofago di Ruggero era rimasto a giacere in uno dei cortili del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dove giace tuttora abbandonato.


    Qualcosa, però, sta mutando circa il destino dei due monumenti, sacri alla memoria dei miletesi. Il rinnovato interesse per le proprie memorie e la consapevolezza della rilevanza di opere d’arte appartenute alla propria storia stanno facendo sì che da reperti obliati e negletti i due sarcofagi diventino monumenti di capitale importanza, sui quali appuntare l’attenzione e di cui riappropriarsi come documenti non solo d’interesse archeologico ma anche e soprattutto come testimonianze ricche di valenza e di significati storici e affettivi. Forse, a così lunga distanza di tempo, si sta  finalmente dando compimento all’appassionato  monito del Capialbi: «Possano una volta i Calabresi riconoscere il pregio de’ monumenti dell’antica lor gloria, e possano questi essere conservati con più cura nella memoria de’ posteri!».Di recente, infatti, e precisamente nel 1998, l’urna di Eremburga, reintegrata con un calco in gesso riproducente il frammento di casa Romano (attualmente, come si diceva, di proprietà vescovile), veniva concessa in esposizione temporanea al Museo Statale di Mileto, appena istituito (1997), dove è tuttora. Quanto alla sua definitiva destinazione, allo stato attuale si è ancora in attesa di conoscere le decisioni delle autorità competenti; ma i cittadini miletesi, giustamente, si aspettano che il monumento resti per sempre a Mileto e possa così essere reintegrato con il frammento originale in sostituzione del calco in gesso. Per ciò che concerne, infine, il sarcofago di Ruggero, sono attualmente in corso le pratiche necessarie onde riportarlo nello stesso Museo miletese, affinché anch’esso trovi finalmente adeguata collocazione accanto a quello della moglie.


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    2001. Marilisa MORRONE NAYMO, Riuso dell’antico nei Monumenti Ruggeriani in Mileto (2). 


    Nei secoli scorsi, allorché un viaggiatore si trovava a transitare da Mileto, la sua attenzione veniva immediatamente catturata dalle due chiese sorte per volontà del Gran Conte Ruggero d’Altavilla nel fausto periodo in cui la cittadina fu la prima capitale della contea normanna di Calabria e Sicilia: l’Abbazia della Santissima Trinità e la Cattedrale. Queste, colpite nel corso dei secoli in più riprese da violenti sismi (provocarono danni alle chiese quelli del 1638 e del 1659), vennero definitivamente rase al suolo dal più devastante, quello, tristemente famoso, del 1783. Gli edifici, il cui aspetto è stato restituito da studi condotti sull’evidenza archeologica e sulle fonti (in particolare piante del XVI e XVII sec. conservate nell’Archivio del Collegio Greco e pubblicate dall’Occhiato), e che per icnografia e soluzioni architettoniche ben si inseriscono nel panorama europeo delle maggiori fabbriche romaniche, erano caratterizzati da un massiccio uso di materiali classici. Grande ammirazione suscitava, tra i fortunati che poterono ammirarli prima della loro distruzione, lo sfarzo con cui erano i monumenti erano decorati (tra i due, specialmente l’abbazia), derivante dai differenti marmi utilizzati, dai quali scaturiva una variegata policromia. Colpiva l’ammirazione dei visitatori  il verde alternato ai grigi, al bianco, alla breccia rosata; inoltre le scanalature delle colonne rudentate alternate alle levigate superfici dei fusti lisci, le cornici variamente modanate, i capitelli corinzi e compositi; infine le sepolture degli Altavilla, tra le quali spiccavano il monumento sepolcrale del conte Ruggero seppellito in un grande sarcofago romano strigilato, ed un altro, attribuito nel 1836 dal Capialbi alla seconda moglie Eremburga, costituito da un sarcofago attico con Amazzonomachia.


    La pratica del reimpiego di spoglie classiche ha origini molto antiche, risale addirittura al IV secolo, all’età dell’imperatore Costantino che, nell’ambito di una politica edilizia di rinnovamento, cominciò il sistematico spoglio degli edifici della Roma classica per ragioni politico-ideologiche; lo stesso Arco di Trionfo costantiniano è decorato da bassorilievi e statue di età adrianea, antonina, traianea nell’ambito di un preciso programma di propaganda. La stessa ideologia informò anche la politica edilizia di Carlomagno, che fece utilizzare marmi romani quale ideale successore degli imperatori classici, artefice di una renovatio imperii anche nell’architettura. Ma il fenomeno si affermò in maniera capillare intorno all’anno mille in occasione delle grandi fabbriche abbaziali dell’ordine benedettino: gli abati, essi stessi protomagistri delle nuove costruzioni, seguendo l’esempio di Desiderio di Montecassino che nel procurare spoglie per la sua abbazia aveva affermato “tribuit sua marmora Roma”, cominciarono un vero e proprio pellegrinaggio presso la capitale alla ricerca degli ottimi marmi di varia provenienza che si potevano trovare fra le rovine della Roma classica. Ben presto, e anche per tutto il XII e il XIII sec., anche i vescovi, specialmente quelli di provenienza nordica, imitarono gli abati benedettini per la costruzione delle cattedrali; fu così che le grandi fabbriche romaniche inglesi e francesi si arricchirono di marmi tratti da Roma o da altri siti archeologici. Il fenomeno si diffuse soprattutto nel mondo normanno, sia in Francia che in Inghilterra, ma contemporaneamente anche in Italia meridionale, dove esso si innestava nella tradizione longobarda e bizantina alla quale questa pratica non era affatto sconosciuta; basti pensare ai  reimpieghi che caratterizzano l’abbazia di S. Vincenzo al Volturno, la chiesa di S. Angelo in Formis, la Cattolica di Stilo, il Battistero di Santa Severina ed altri edifici, in tutto quel territorio che graviterà intorno al regnum normanno.


    Successivamente all’abbandono dell’abitato di Mileto, distrutto dal terremoto del 1783, durante la completa riedificazione dello stesso in altro sito, si diffuse la deprecabile pratica del saccheggio delle sue rovine, divenute così agevole cava di pietra per le nuove costruzioni, pratica che, del resto, già la Trinità aveva subito dopo il terremoto del 1659; l’Abbazia e la Cattedrale furono, ovviamente, i due edifici che pagarono il prezzo più alto in questa operazione: i blocchi lapidei ben squadrati furono molto richiesti dai mastri fabbricatori della nuova Mileto, che li impiegarono negli edifici moderni nel cui tessuto murario ancora oggi si leggono distintamente; i blocchi che non potevano essere più rimessi in opera finirono per essere trasformati in calce. Anche i marmi divennero preda di mastri, ma soprattutto di collezionisti di antichità, e furono destinati ad abbellire giardini e ville; alcuni elementi vennero impiegati in edifici più prestigiosi, come il Seminario cosiddetto “Vecchio”, dove sono in bella mostra nella facciata dodici basi marmoree di lesena. Oggi è in atto una lodevole operazione di raccolta (peraltro già auspicata dall’Orsi agli inizi del ‘900) dei materiali provenienti da Mileto vecchia e dispersi tra collezioni private ed altre collocazioni, alcuni già esposti, altri in via di sistemazione nel Museo Statale istituito di recente presso la Curia Vescovile.


    L’Abbazia della SS. Trinità.

    Una parte dei marmi reimpiegati nella famosa chiesa abbaziale (fondata prima del 1070 ma consacrata una prima volta nel 1080, quindi, con ogni probabilità, dal Papa Pasquale II nel 1101, anno di morte del Conte Ruggero, e una terza volta nel 1166), si trova oggi tra le sue rovine; in particolare alcune basi ancora in situ, colonne e qualche blocco di trabeazione, mentre una cospicua parte dei marmi antichi oggi conservati nel Museo della nuova Mileto, si deve considerare come pertinente alla stessa chiesa.

    La chiesa abbaziale, la cui platea di fondazione superstite è stata messa interamente in luce da scavi archeologici antichi e recenti, presentava tre navate scandite da due file di sedici colonne su base, transetto sporgente con pilastri cruciformi al suo innesto con le navate (sui quali, secondo quanto riportato dal Calcagni erano addossate semicolonne di vari marmi), e tre absidi allineate con le navate stesse; la prima colonna della navata destra fu eliminata e sulla base pertinente ad essa si sovrappose la successiva costruzione di una torre campanaria all’interno della facciata, come è testimoniato anche da una delle piante del Collegio Greco datata al 1638, dove è tracciata nel muro del campanile la sagoma di una metà della base. Lungo la parete della navata sinistra si trovano alcune nicchie semicircolari, che, verosimilmente, dovevano alloggiare colonnine ivi situate per movimentare la superficie dei muri e dare un effetto cromatico contrastante con il candore della pietra calcarea usata per la struttura muraria; presso gli altari vi erano sepolture gentilizie, ancora oggi visibili sotto il pavimento. La parete opposta, invece, dove non si trovano tracce di queste nicchie né di altre sepolture, doveva essere occupata soltanto dai monumenti gentilizi degli Altavilla con i grandi sarcofagi (almeno i due a noi pervenuti) classici; la navata destra sembra, dunque, essere stata riservata alla famiglia comitale già dalla prima progettazione della chiesa.


    Molte fra le sedici basi delle colonne dell’Abbazia si sono conservate (l’attribuzione a questa chiesa è certa per la circostanza che le colonne della Cattedrale non avevano basi, come attestato da varie descrizioni): sei sono ancora in situ, due fra le quali inglobate in strutture di fasi successive ad esse sovrappostesi, due si trovano presso i ruderi ma fuori contesto, le altre nel Museo ed in altri punti della nuova città. Si tratta di basi attiche su plinto quadrato con scozia tra due tori, databili fra I e III sec. d.C. Altri basamenti si riferiscono a sostegni per pilastri o semicolonne che potevano essere stati reimpiegati  presso i pilastri del transetto; fra essi, particolari sono 1) una base attica su piedistallo, in marmo proconnesio (produzione proconnesia del V sec. d.C.); 2) un basamento con tori e plinto decorati: il toro superiore presenta un festone d’alloro, quello inferiore un anthemion a palmette alternate ad un motivo vegetale “a lira”; sul plinto, racemi d’acanto; il pezzo si data ad età adrianea.


    Nella pianta del 1638, che riporta alcune riparazioni da farsi per i danni subiti dalla chiesa in quell’anno, compaiono quadratini inseriti nei pilastri terminali della navata, sulle testate dei muri del coro maggiore e ai lati dell’abside centrale: essi indicano con buona probabilità la presenza di queste basi quadrangolari inserite nello spessore dei muri sulle quali erano sistemate le colonne o semicolonne ricordate anche dal Calcagni; le colonne dei pilastri fronteggiavano quelle situate alla testa dei muri del transetto, di una delle quali ancora si conserva la nicchia entro cui era collocata.


    La presenza di colonne che fiancheggiano l’abside centrale è stata accertata da scavi archeologici anche nell’ Abbazia di S. Maria di Sant’Eufemia, di poco precedente l’Abbazia milesia e attribuita allo stesso protomagister, ovvero l’abate normanno Robert de Grandmesnil, congiunto del Conte Ruggero; il motivo decorativo, di ascendenza islamica, compariva anche nell’Abbazia desideriana di Montecassino e si ritroverà, inoltre, in molti edifici ecclesiali calabresi e siciliani del XII sec. come S. Maria della Roccelletta, la Cattedrale di Cefalù e la stessa Cappella Palatina a Palermo.


    Le colonne della Trinità non si sono conservate tutte, e tra quelle riferibili alle navate solo quindici: 4 in marmo grigio, 3 rudentate, 4 in granito (una in granito della Troade si può vedere ancora tra i ruderi), 2 in verde antico, 1 in breccia policroma, 1 in cipollino; inoltre tre semicolonne in granito pertinenti ai pilastri, e una, in verde antico, ancora in situ davanti al muro di cinta dell'Abbazia, identificabile con una di quelle visibili nell’incisione del Pacichelli forse relative alle rovine di una delle costruzioni relative al monastero e crollate già nel corso dei sismi del XVII sec. È intere7ssante notare la scelta delle colonne rudentate, che in genere venivano preferite nelle chiese con reimpiego, probabilmente per il loro valore decorativo e la loro proprietà di creare un effetto di chiaroscuro; nella Cattedrale di Gerace (XII sec., dunque successiva) ne sono sistemate quattro, disposte a coppia, nella metà del colonnato più vicina al transetto; è possibile che anche a Mileto fossero altrettante (anche se al momento se ne conoscono tre) e poste allo stesso modo; il modello della SS. Trinità dovette essere ben presente all’architetto che realizzò la chiesa geracese su committenza di Ruggero II, dove, infatti, si ritrovano altri elementi decorativi presenti già nell’Abbazia (ad esempio le alte paraste sulle absidi). Molti frammenti di colonne ed altre intere ma di minori dimensioni, sono sicuramente riconducibili a quelle reimpiegate lungo le pareti della navata sinistra, sui pilastri della crociera e sull’abside maggiore.


    I 14 capitelli conosciuti (alcuni sono oggi scomparsi ma se ne possiedono immagini) sono di vario tipo, cronologia e dimensione: 1) quattro esemplari corinzi asiatici di periodo tetrarchico-primo costantiniano, contraddistinti da due corone di foglie d’acanto spinoso, caulicoli, stelo del fiore dell’abaco e calicetto molto stilizzati tanto da perdere naturalezza e da diventare solo elementi decorativi. 2) due esemplari, di uno dei quali si conserva un solo frammento, a calice greco, con due caratteristiche corone differenti: l’inferiore con otto foglie d’acanto, la superiore con sedici affusolate foglie d’acqua terminanti con la punta ripiegata sotto l’abaco; essi sono databili alla prima metà del II sec. d.C. per le foglie d’acqua strette e ben rilevate, le foglie d’acanto ben definite nei particolari; si tratta di caratteristici prodotti delle officine greche, diffusi fin dalla prima metà del II sec. d. C. anche in Italia meridionale: esemplari simili sono presenti a Reggio, Canosa, Siracusa; simili ad essi erano quelli asiatici (reimpiegati invece a Gerace) in cui si trovano baccellature in luogo delle foglie d’acqua. 3) due esemplari compositi del III sec. d.C. con parte inferiore corinzia e volute ioniche. 4) Due capitelli attribuibili alle semicolonne dei pilastri, l'uno corinzio asiatico databile tra la fine del III e gli inizi del IV sec. d.C., l'altro corinzio occidentale di II sec. d.C.


    Numerose lastre di trabeazione con kymatia vari, alcune delle quali visibili in reimpiego secondario nelle fasi di ricostruzione della chiesa databili al XVII secolo, si conservano sia nei ruderi dell’abbazia che nel Museo. Il cospicuo numero attestato, testimonia un loro consistente riuso nella chiesa: si tratta di sottocornici in marmo proconnesio databili quasi tutte ad età adrianea con kymatia ionici, lesbici trilobati (perlopiù di tipo B), a dentelli. Da aggiungere, incorniciature di porte, cornicette e stipiti con racemi d’acanto, databili tutti al II sec. d.C., che potrebbero provenire dal portale d’ingresso dell’abbazia, che la relazione del Vivenzio sui danni provocati dal terremoto del 1783 ci attesta essere stato di marmo bianco.


    L’attestazione di un alto numero di sottocornici solleva il problema del loro reimpiego, poiché esse presuppongono la presenza nella chiesa di architravi; se ciò si ammette, si devono ipotizzare soprastanti le colonne non archi (come a Gerace, nella Cattedrale della stessa Mileto ed in tutte le fabbriche normanne siciliane), ma architravi orizzontali sul modello delle basiliche altomedievali, che si ritrovano in alcune chiese romane ancora nel XII sec. e sono costituiti quasi sempre da trabeazioni classiche in reimpiego. Tuttavia l’opera dell’abate Calcagni (1699), che però giunse a Mileto dopo la rovina della chiesa medievale e perciò non la vide, ci parla delle colonne che sustinebant arcus: pur trattando con ogni cautela la fonte, che in diversi punti si rivela contraddittoria ed inesatta (spesso, infatti, confonde particolari della prima chiesa con quelli della ricostruzione post-terremoto del 1659), occorre comunque considerarla; come spiegare, dunque, il riuso delle cornici in presenza di archi? La questione apre la strada a nuove ipotesi ricostruttive dell’interno che potranno essere valutate soltanto dopo aver effettuato una raccolta completa dei reperti, alcuni ancora dispersi, ed un loro accurato rilievo.


    Molti tra gli elementi architettonici reimpiegati (soprattutto capitelli e trabeazioni) nella prima fase della chiesa, recano tracce di rilavorazione: ciò presuppone la presenza di marmorari professionisti che nelle chiese medievali sono strettamente connessi al riuso di marmi antichi e che non è escluso siano gli artefici, come già attestato per molte fabbriche del secolo XI, di tutto il progetto decorativo della SS. Trinità. Nell’XI sec. sono le botteghe romane a fornire le maestranze specializzate in questa attività, dunque è estremamente probabile che furono proprio esse ad eseguire la preparazione e la messa in opera dei marmi antichi; l’incarico dato a marmorari provenienti da Roma potrebbe essere messo in relazione agli stretti rapporti stabilitisi fra Papato ed Altavilla che videro protagonisti anche gli Abati benedettini, e, in particolare, a quel soggiorno romano (che nell’ambito di questi rapporti si inserisce), dell’Abate protomagister della Trinità, Robert de Grandmesnil, avvenuto nel 1061 prima di giungere in Calabria chiamato a guidare l’Abbazia di S. Eufemia; questo soggiorno dovette servire, come rilevato dall’Occhiato, all’Abate normanno (peraltro già architetto di un’Abbazia lasciata incompiuta in Normandia) per conoscere ed assimilare il modello basilicale tardo-romano che tanta influenza ebbe sul tutto l’impianto del corpo longitudinale della SS. Trinità; basti pensare che a Roma egli fu ospitato dal Papa presso la basilica di S. Paolo, vero e proprio modello per tante chiese successive; in tale interpretazione del linguaggio architettonico tardo-classico adottato dal Grandmesnil a Mileto e condiviso anche dalle maestranze romane che vi lavorarono, si potrebbe inserire anche il motivo dell’architrave orizzontale per i valichi tra le navate. La struttura basilicale di modello tardo-antico con trabeazioni classiche, infatti, si richiama ad una tipologia romana classicheggiante ben conosciuta e messa in atto dalle botteghe marmorarie della Capitale già nell’XI sec.; essa fu sistematicamente adottata tra il XII e il XIII sec. da quella nota bottega dei Cosmati (peraltro attestata anche nella Trinità di Mileto), nei portici di molte chiese romane (S. Lorenzo in Lucina, SS. Giovanni e Paolo, S. Giorgio al Velabro, S. Lorenzo fuori le Mura ed altre) e nella navata di S. Maria in Trastevere dove vengono associati elementi scolpiti ex novo a quelli di spoglio, che però mantengono una posizione preminente.


    Il monumento funerario del conte Ruggero

    Unico elemento superstite della sepoltura di Ruggero I è il grande sarcofago marmoreo strigilato della prima metà del III sec. d.C., conservato nel Museo Nazionale di Napoli. Esso è un bellissimo esemplare di produzione urbana, con porta ditis al centro tra paraste rudentate con capitelli corinzi; sui lati sono scolpiti due seggi curuli, sormontati da teste di meduse il cui viso è stato rilavorato e sostituito da croci; agli angoli della fronte, due busti acefali, uno maschile, l’altro femminile. Dalla pianta del 1581 conservata nell’Archivio del Collegio Greco, si conosce l’esatta collocazione del mausoleo del conte Ruggero: esso si trovava tra la quinta e la sesta colonna della navata destra, appoggiato alla parete meridionale della chiesa;  il disegno, di forma rettangolare, è  accompagnato dalla legenda «Sepoltura di re Rugiero».

    Il problema della sepoltura di Ruggero I ha attirato l’attenzione degli studiosi per l’attribuzione del mausoleo funerario ad un Petrus Oderisius, appartenente proprio a quella dinastia di marmorari romani dei Cosmati specialisti nel reimpiego, ed attestato dall’iscrizione che si trovava incisa sulla parete retrostante il sarcofago.


    Una testimonianza riferibile ad un periodo precedente il terremoto del 1638, contenuta nel Ms Barberino-Latino n. 5392 e pubblicata dal Mercati nel 1942, riporta le seguenti notizie: che un grande sepolcro in marmo bianco, opera antica priva d’ornamento stava nella parte destra nell’”entrare”; che si diceva che in questa cassa ci fosse seppellito il conte con la moglie; che il sepolcro era staccato dal muro (forse fu tolto del tutto dopo il terremoto del 1638, perché sulla pianta successiva all’evento non compare) ma in origine non lo era; che sulla parete si vedevano caratteri «greci» non più leggibili; che sulla parete, accanto all’iscrizione, fossero appese lo scudo e le armi del conte e che poi vennero tolte dal Cardinale della Valle. L’iscrizione sbiadita del primo scorcio del seicento era, invece, ben leggibile alla fine del XVII secolo,  in conseguenza del restauro che la chiesa ed, evidentemente, anche la stessa iscrizione avevano subito dopo i numerosi crolli verificatisi durante il sisma del 1659; essa è riportata dal Pacichelli che la vide durante il suo viaggio nel regno meridionale: Rogerii Comitis Calabriae, et Siciliae hanc sepolturam fecit Petrus Oderisius Magister Romanus. Hoc quicunque leges, dic sit ei Requiem. Il ripristino dell’iscrizione è confermato dall’abate Diego Calcagni (1699), autore dell’Historia cronologica brevis dell’abbazia; egli riferisce che, durante i lavori di restauro dell’edificio successivi al terremoto del 1659 che trasformarono la chiesa, il sarcofago rimase a lungo nel cimitero vicino ad essa; successivamente in meliorem et nobiliorem formam in ala sinistra (intendi dextera) repositus est, collocato tra due colonne di marmo, e sulla parete fu scolpita l’iscrizione vista dal Pacichelli che, evidentemente, riproduceva l’originale con la firma di Pietro Oderisio; accanto a questa fu anche apposta, in occasione del ripristino del monumento, un’iscrizione nel cui testo, riportato nell’appendice dell’opera, comparivano una sintesi delle gesta del Conte chiuse dall’espressione in hac Basilica regio funere tumulatur hac Epigraphe: Linquens terrenas, migravit Dux ad amoenas / Rogerius Sedes, nam Coeli detinet aedes. Il Calcagni aveva già riportato, nel testo della sua Historia, che anche in origine Ruggero I era stato seppellito con questi due versi usati come epitaffio, nell’Abbazia da lui stesso fondata. Nel pavimento della navata destra dell’abbazia, risalente alla III fase costruttiva databile alla ricostruzione successiva al 1659, è presente una traccia di dimensioni corrispondenti a quelle del sarcofago di Ruggero, situata dietro la seconda colonna a circa due metri dalla parete: con ogni probabilità si tratta della seconda sistemazione del sarcofago, descritta dal Calcagni. È interessante notare come quest’ultimo non parli dell’altro sarcofago ed invece attribuisca i due busti situati agli angoli del sarcofago di Ruggero  allo stesso conte ed alla moglie Eremburga, testimoniando un doppio uso della sepoltura. I due versi dell’epitaffio di Ruggero sono ricordati anche dal Muratori (edizione postuma del 1752), che li conobbe dall’opera di Rocco Pirro del 1643, insieme ad altri di sepolture normanne del XII secolo (quelli del conte Rinaldo, di Guglielmo I, della regina Margherita), fra le prime attestazioni dell’uso della rima nella poesia italiana; gli epitaffi, secondo l’autore, sarebbero la prova di una poesia praticata nel meridione già prima di quella provenzale.


    Se tutti gli studiosi ed i viaggiatori descrivono il sarcofago di Ruggero e l’altro attribuito alla moglie Eremburga, tuttavia essi non si soffermano sul monumento entro cui quello di Ruggero era collocato, opera del magister romanus Pietro Oderisio. Lucia Faedo nel 1982 ha ricostruito ipoteticamente sulla base delle fonti documentarie il monumento sepolcrale, del quale già l’Orsi supponeva la presenza, attribuendo ad esso una trabeazione in porfido con maschere reimpiegata nella cattedrale di Nicotera e databile alla prima metà del XII sec. Il monumento doveva essere costituito da un baldacchino di porfido scolpito con varie figure e appoggiato alla parete, con timpano triangolare ed il sarcofago collocato al centro su un basamento dove erano probabilmente scolpiti i due versi in rima; sulla base di questi elementi, e dal confronto con il monumento di Alberada moglie del Guiscardo nell’abbazia della Trinità di Venosa, lo data al XII sec. Il Claussen, invece, affrontando il tema delle botteghe marmorarie e delle famiglie dei maestri romani, ha sostenuto l’identità tra il Petrus Oderisio di Mileto ed il maestro omonimo autore di due sepolture illustri del XIII sec., la tomba di Edoardo il Confessore a Westminster e quella di Clemente IV a Viterbo, dunque ha abbassato la datazione del monumento funerario di Ruggero I al terzo quarto del XIII sec. Ma  questa datazione, oltre a non essere suffragata dalle contingenze storiche di Mileto e della stessa Abbazia (per la quale scompaiono quasi del tutto anche le donazioni comitali dopo la morte del fondatore), contrasta, fra l’altro, con quanto attestato dallo scavo dell’abbazia. I reperti vitrei, numismatici, ceramici, testimoniano una vitalità ed una floridezza economica durata il breve volgere di poco più di un secolo, che già nel XIII si affievolisce, fino a cessare quasi del tutto nel XIV sec., allorché l’abbazia si dibatte in gravi problemi economici. I frammenti delle vetrate absidali, che la stratigrafia ha attestato essere crollate nel 1659, si datano al XII sec. ed attestano la presenza a Mileto di un atelier di maestranze bizantine che operarono sul posto; la maggior parte delle monete rinvenute sono emissioni bizantine ribattute, oppure esemplari di Ruggero I e Ruggero II; i reperti ceramici sono di qualità ed annoverano manufatti d’importazione fino al XIII sec., nel periodo successivo ne diminuiscono la qualità e la quantità e sono attestati solo prodotti locali; essi confermano, dunque, un’irreversibile decadenza economica dell’abbazia tra XIII e XIV sec.   La datazione del monumento funerario di Ruggero I stabilita dalla Faedo agli inizi del XII secolo, è, dunque, la più plausibile.


    Alla fine del XII secolo (1197), su committenza dell’imperatore Enrico VI, Pietro da Eboli scrisse e miniò il Liber ad honorem Augusti. Tracciando la storia dei Normanni, di cui Enrico era, maritali nomine, il successore, egli dipinge una sepoltura reale attribuendola a Ruggero II, con l’iscrizione hic sepelitur rex cum uxore; il monumento miniato consta di un sarcofago con stilizzazioni di strigliature, sotto un baldacchino sistemato per una visione frontale, dunque addossato al muro dal lato lungo, con timpano triangolare e lampade pendenti, sul modello di quello di Alberada a Venosa. Il sepolcro di Ruggero II, invece, ancora esistente nella Cattedrale di Palermo, è ben diverso da quello miniato: il sarcofago regale è un’urna in porfido, materiale connesso alla dignità regale, retta da cariatidi; esso fu realizzato, secondo recenti studi, intorno al 1187 per iniziativa dell’arcivescovo Gualtiero, e in età sveva fu collocato sotto un baldacchino sostenuto da colonnine. L’iscrizione riportata nel manoscritto bernese sull’architrave del monumento ricorda anche una unica sepoltura del re con la moglie, cosa non attestata per il re Ruggero II, ma per suo padre, il Gran Conte; fin dai primi anni del XVII secolo, infatti, gli autori di scritti sull’abbazia della SS. Trinità di Mileto ricordano la sepoltura di Ruggero I insieme alla moglie (il Calcagni ritiene che sia la seconda, Eremburga, ma potrebbe essere anche la prima, l’adorata Giuditta di Evreux); inoltre il sarcofago scelto per il riutilizzo è adatto ad una sepoltura bisoma, con i due busti-ritratto agli angoli. Non è pertinente a Ruggero II neppure l’iconografia del personaggio ritratto giacente senza vita sul sarcofago: il re, come i suoi successori Guglielmo I e II, è sempre ritratto con gli attributi dell’imperatore bizantino, tra i quali la corona chiusa con la porta centrale ed i pendenti di perle; conosciamo questa iconografia dai mosaici di S. Maria dell’Ammiraglio in Palermo, da una placchetta della Basilica di S. Nicola in Bari, dalle monete; la corona sul capo dell’uomo disteso senza vita nel Cod. Bernese è aperta, e non vi sono pendenti, sembrerebbe più attinente ad una corona comitale o ducale. Anche l’epiteto rex con cui viene indicato nella miniatura il defunto, che potrebbe riportare a Ruggero II, è spesso usato da molte fonti anche per suo padre, e nella pianta della stessa abbazia della SS. Trinità del 1581, proprio il suo mausoleo viene indicato come quello di «re Rugiero». Tutti questi particolari portano in un’unica direzione: il monumento miniato nel Cod. Bernese 120 è quello di Ruggero I nell’abbazia della SS. Trinità di Mileto, a meno che essa non si voglia ipotizzare un riferimento alla sepoltura provvisoria (dal 1154 al 1187) di Ruggero II in Palermo che, tuttavia, non sembra essere stata monumentale. Essendo la miniatura della fine del XII sec., la sepoltura di Ruggero I deve necessariamente essere stata realizzata prima di questo periodo, molto probabilmente subito dopo la morte del conte (avvenuta nel 1101) o addirittura vivente egli stesso, se si considera che la chiesa fu progettata anche in funzione della collocazione di esso nella navata destra, come detto in precedenza. D’altra parte la destinazione della chiesa ad accogliere le sepolture degli Altavilla fu espressa dalla stessa volontà del Conte nel Privilegio (databile entro il 1071) a favore dell’Abbazia appena fondata: ...ut in supradicta ecclesia, quam ab ipsis fundamenis ereptam dotis munere nobiliter ditare cupio, omnes mei heredes ipsis huic precepto meo in vita sua annuentibus, mecum sepulti requiescant.


    Pur non avendo ancora elementi per specificare con precisione gli anni della sua attività in Calabria, il Pietro Oderisio attestato a Mileto non può che essere un omonimo antenato di quello di Westminster e Viterbo, di quella stessa famiglia dei Cosmati, come detto in precedenza, già fiorente nella capitale nell’XI sec. dove furono autori di splendide opere connesse sempre a reimpieghi di marmi antichi; a lui ed alla sua bottega può sicuramente essere attribuita anche la realizzazione del pavimento in opus sectile con tasselli tratti da marmi antichi e rinvenuti nello scavo, opera nella quale questi magistri doctissimi furono specialisti. Non è escluso che una delle consacrazioni della chiesa che si successero dopo la prima avvenuta nel 1080, sia da connettere al completamento dei lavori riguardanti la navata (come del resto già ipotizzato dall’Occhiato) con tutti i suoi reimpieghi e con il pavimento, nonché all’avvenuta realizzazione del monumento funerario di Ruggero I.


    La Cattedrale.

    Oltre che nell’Abbazia, anche nella Cattedrale di Mileto, realizzata successivamente all'Abbazia (diploma di fondazione 1080 circa), erano reimpiegati colonne, capitelli ed altri elementi antichi, come ci è stato tramandato dalle descrizioni antecedenti il terremoto del 1783 e come si può desumere da quanto si osserva sul sito. L’interno della chiesa era diviso in tre navate da due file di colonne abbinate senza base, che sostenevano archi acuti. Tra i reperti oggi conservati sono da considerare pertinenti alla Cattedrale  sedici colonne in granito grigio (alcune integre) di dimensioni molto simili (h. tra 3,05 e 2,84; diam. tra cm. 36 e 48); queste colonne non sembrano reimpiegate, ma contemporanee alla chiesa; pezzi antichi, viceversa, sembrano soltanto le due di dimensioni maggiori, una in granito (integra, h. m. 4,45, diam. 61,4), l'altra in marmo bianco (un suo frammento era in vista tra i ruderi), che dovevano trovarsi presso il primo valico, vicino all’ingresso. I resti della Cattedrale hanno permesso di identificare la presenza di una cripta a cui probabilmente sono pertinenti alcune colonne tortili, scanalate ed istoriate databili tra la fine dell'VIII sec. ed il IX sec., conservate nell'attuale Cattedrale di Mileto e confrontabili con alcuni esemplari della Cripta della Cattedrale di Otranto e della Basilica di S.Nicola a Bari. Rimane molto dubbia la sorte toccata ai capitelli che, secondo quanto tramandato un documento del 1744, furono fatti “indorare” insieme agli archi, dal vescovo G. Panzani alla fine del XVII sec. Tra i capitelli di cui si dispone, non ve ne sono che portino le tracce di tale decorazione, tanto che si sono attribuiti tutti all’Abbazia.

    I viaggiatori dei secoli scorsi videro sulla soglia della Cattedrale una lastra con epigrafe pubblica, che menziona “quatuor viri” autori di un restauro del Tempio di Proserpina in Vibo Valentia (oggi al Museo di Napoli); la testimonianza è un’indubbia conferma della presenza di materiale proveniente dallo spoglio di edifici della Vibo romana, almeno nella Cattedrale, alla quale, peraltro, potrebbero anche essere pertinenti alcuni dei marmi di II sec. relativi ad una porta e descritti in precedenza, conservati nel Museo di Mileto.


    Bibliografia



    • Aa.Vv., Beni Culturali a Mileto di Calabria, Oppido Mamertina 1982.
    • Asgari N., Observations on two types of quarry-items from Proconnesus. Column-shafts and column-bases. Ancient stones. Quarrying, trade and provenance, Louvain 1992.
    • Asgari N., The stages of workmanship of the Corinthian capital in Proconnesius and its export form, in Classical marble, Dordrecht-London-Boston 1988, pp.115-121.
    • Barsanti C., L’esportazione di marmi dal Proconneso nelle regioni pontiche durante il IV-VI secolo, in Rivista Nazionale dell'Archeologia e Storia dell'Arte, Serie III, XII (1989), Roma 1990, pp.91-220.
    • Bartuli F. – Occhiato G., Una memoria inedita di Ignazio Piperni sull’antica città di Mileto (1744), Mileto 1984.
    • Belli D’Elia P., La Puglia. «Italia Romanica», 8, Milano 1986.
    • Bertelli G., Sul reimpiego di elementi architettonici bizantini a Bari, in Vetera Christianorum, 24 (1987), pp.  375-397.
    • Bozzoni C., Calabria Normanna. Ricerche sull’architettura dei secoli undicesimo e dodicesimo, Roma 1974.
    • Brenk B., Spolia from Constantine to Charlmagne: Aesthetics versus Ideology, in Studies on Art and Archeology in Honor of E. Kitzinger on his Seventhy-Fifth Birthday, DOP, 41, 1987, pp. 103-109.
    • Cassano R. , Il reimpiego nella Cattedrale normanna, in Principi Imperatori Vescovi. Duemila anni di storia a Canosa, pp. 916-919.
    • Cassano R., Cattedrale. Il reimpiego, in Archeologia di una città. Bari dalle origini al X secolo, Bari 1988, pp.405-433.
    • Castellani A.,  Riutilizzo e rilavorazione dei marmi romani nell’abbazia altomedievale di San Vincenzo al Volturno, in II Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, Firenze 2000, pp. 304-308.
    • Cenciaioli L., I capitelli romani di Perugia, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia. Università di Perugia, XV, nuova serie I, 1977/78, 1, Studi Classici, pp. 41-97.
    • Claussen P. C., Marmi antichi nel Medioevo romano. L'arte dei Cosmati, in Marmi antichi, Roma 1989, pp. 72.
    • Claussen P.C., Magistri doctissimi romani, Stoccarda 1988".




    (1) Giuseppe OCCHIATO, profilo biografico a cura di Alessandro Gaudio) © ICSAIC

    "Scrittore, storico e pittore, nativo del rione Calabrò della cittadina normanna di Mileto e fortemente legato alla Calabria, ha vissuto e lavorato per un lungo periodo in Toscana, dapprima a Prato, dove si trasferì nel 1984 con la moglie Amelia Cirianni, poi a Firenze.
    Rimasto precocemente orfano dei genitori (il padre Ernesto morì sulla nave di ritorno da Addis Abeba nel 1936; la madre, Aurora Maria Elsa Currà, scomparve l’anno successivo), la sua formazione venne curata dalla nonna materna, Maria Antonia Mesiano, illetterata, ma dotata di notevolissime capacità affabulatorie.
    Occhiato ha compiuto studi classici al liceo di Vibo Valentia e, nel 1970, si è laureato a Messina in lettere moderne con una tesi dedicata al duomo normanno di Gerace. Docente di Storia dell’Arte e poi, dal 1977, preside, è stato uno stimato uomo di scuola fino al 1996.
    Ha collaborato attivamente alla Deputazione di Storia Patria per la Calabria. 
    Si è interessato di storia e di architettura medievale calabrese e meridionale. 
    Le sue ricerche hanno contribuito a rivalutare il ruolo della Calabria normanna nel contesto del Romanico europeo; sono state altresì di grande stimolo alla promozione di campagne di scavi nelle aree delle antiche abbazie benedettine di Santa Maria di S. Eufemia Vetere e della SS. Trinità di Mileto e all’istituzione del Museo Statale di Mileto, inaugurato nel 1997.
    È stato relatore in diversi convegni di storia. 
    Nel 1983 è stato consulente per la realizzazione della serie televisiva I segni e la storia, diretta da Pietro De Leo per i programmi della sede Rai della Calabria.
    Ha mantenuto a lungo la direzione scientifica della Cooperativa “Nuova Ricerca”, che ha operato nell’ambito di un importante progetto promosso dal Centro Servizi Culturali di Vibo Valentia e finanziato dal Formez; i materiali prodotti nell’ambito di tale lavoro sono stati pubblicati nel volume intitolato Beni culturali a Mileto di Calabria, a cura di Gilberto Floriani, Franesco Palazzolo, Vincenzo Russo e il coordinamento di Ilario Principe (Barbaro, Oppido Mamertina 1982).
    Ha collaborato ai «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna», stampati presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Messina e diretti da Alessandro Marabottini che era stato il suo maestro, e ha pubblicato numerosi saggi su riviste italiane ed europee, nonché diversi volumi di storia. 
    Ha esordito nella narrativa nel 1989 con Carasace, romanzo incentrato sull’incursione aerea degli alleati sull’aeroporto di Vibo Valentia e sulle zone limitrofe che, nel luglio del 1943, causò la morte di oltre quaranta civili e che ebbe un impatto decisivo sull’immaginario del giovanissimo Giuseppe. 
    Ed è proprio nel romanzo che Occhiato, pur nel silenzioso “passaggio in ombra” sulla nostra terra, ha acquisito maggior fama. 
    Il suo romanzo-poema "Oga magoga. Cuntu di rizieri, di orì e del minatòtaro" - "romanzo universo” (nella definizione di Franco Moretti) di fenomenale estensione, frutto di vent’anni di lavoro e pubblicato nel 2000 − è stato accostato a un altro monstrum letterario del Novecento, l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. 
    Si pensi che l’opera, frutto di mezzo secolo di lavoro, ebbe quattro redazioni in versi (tra il 1954 e il 1981) e altrettante in prosa (dal 1991 al 2000). 
    Nel 2006, Occhiato pubblicò Lo sdiregno, rifacimento di Carasace, e, l’anno successivo, L’ultima erranza.
    Di Occhiato hanno scritto, tra gli altri, Lia Fava Guzzetta, Emilio Giordano, Antonio Piromalli, Caterina Verbaro, Marino Biondi, Neil Novello, Salvatore Carmelo Trovato, Alfio Lanaia, Francesco Mercatante, Marino Biondi, Nino Borsellino. 
    Da segnalare l’uscita, nell’aprile del 2019, di un numero monografico della «Rivista di Studi Italiani», a cura di Neil Novello ed Emilio Giordano, dedicato all’opera di Occhiato nel suo complesso e interamente disponibile on line. 
    La raccolta di saggi include studi editi, ripensati per l’occasione, e inediti.
    L’ultimo romanzo di Occhiato, imperniato sull’Opera dei Pupi e intitolato "Opra meravigliosa", è ancora inedito. 
    Come inedita è anche una raccolta di proverbi risalente al 2007 e denominata ‘A Crisara’. Piccola cernita di proverbi calabresi. 

    Opere
    • Carasace. Il giorno che della carne cristiana si fece tonnina, Progetto 2000, Cosenza 1989.
    • Oga Magoga. Cunto di Rizieri, di Orì e del minatòtaro, 3 voll., Progetto 2000, Cosenza 2000 (ripubblicato, a cura di Emilio Giordano, dall’editore Gangemi di Roma nel 2019).
    • Lo sdiregno, Ilisso-Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.
    • L’ultima erranza, Iride-Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.

    Bibliografia
    • Antonio Piromalli, Giuseppe Occhiato narratore epico-popolare, «Letteratura e Società», IV, n. 2, maggio-agosto 2002, pp. 35-50.
    • Caterina Verbaro, L’invisibile confine. La narrazione epica di Oga Magogatra umano e divino, «Filologia Antica e Moderna», XIII, n. 24, 2003, pp. 257-267.
    • Lia Fava Guzzetta,Voci mediterranee tra lingua e letteratura: D’Arrigo, Occhiato, Camilleri, «Civiltà Italiana», Nuova Serie, n. 3, 2004, pp. 309-319.
    • Salvatore Carmelo Trovato, Giuseppe Occhiato scrittore di Calabria. Teoria e prassi linguistica, in Gianna Marcato (a cura di), Dialetto. Usi, funzioni, forma, Atti del Convegno, Sappada\Plodn (Belluno), 25-29 giugno 2008, Unipress, Padova 2009, pp. 183-192.
    • Emilio Giordano, Nella mente dei morti. Lo spazio letterario dell’ultimo Occhiato, «Forum Italicum», n. 2, 2010, pp. 405-436.
    • Emilio Giordano, I mostri, la guerra, gli eroi. La narrativa di Giuseppe Occhiato, prefazione di Lia Fava Guzzetta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.
    • Giovanni Russo, Giuseppe Occhiato, il talento di dosare le sfumature del linguaggio, «Corriere della Sera», 22 aprile 2013.
    • Emilio Giordano, Gennaro Oriolo (a cura di), La grande magia. Mondo e Oltremondo nella narrativa di Giuseppe Occhiato, Atti del convegno di Firenze del 20 maggio 2011, Edizioni Studium, Roma 2014.
    • Neil Novello, Emilio Giordano (a cura di), Mitopoesia dell’eone: cunti, stellari e dicerie. L’opera di Giuseppe Occhiato, «Rivista di Studi Italiani», a. XXXVII, n. 1, aprile 2019, on line al seguente URL: www.rivistadistudiitaliani.it.





    ARCHIVIO STORICO DELLA CALABRIA - Nuova serie
    A cura di Giovanni Pititto



    Giuseppe Occhiato - Bibliografia

    1977. Giuseppe Occhiato, La SS. Trinità di Mileto e l’architettura normanna medievale, Abramo, Catanzaro 1977.

    1984. Giuseppe Occhiato, Una “Memoria” inedita di Ignazio Piperni sull’antica città di Mileto (1744), (in collaborazione con Filippo Bartuli), Graficalabra, Vibo Valentia 1984.

    1994. Giuseppe Occhiato, La Trinità di Mileto nel romanico italiano, prefazione di Emilia Zinzi, Progetto 2000, Cosenza 1994.

    2001. Giuseppe Occhiato, Ruggero I d’Altavilla. Breve profilo di un condottiero, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001.

    2001. Giuseppe Occhiato, Ruggero I d'Altavilla. Breve profilo di un condottiero, Progetto 2000, 2001, pp. 60. Collana: Il meridione come questione. ISBN-10: 8882760774ISBN-13:  9788882760779.

    2001. Giuseppe Occhiato (a cura di), "Ruggero I e la provincia melitana". Catalogo della mostra, Rubbettino, 2001. ISBN-10: 8849801831 - ISBN-13:  9788849801835.

    2017. Filippo Ramondino - Francesco Galante (a cura di), Mileto. Studi storici. Miscellanea di ricerche, Adhoc editore,Vibo Valentia , 2017. Tabularium Mileten ; 18. ISBN 978-88-96087-86-2. [Il volume include studi e pubblicazioni di Occhiato, con particolare riferimento a quelli scritti tra la metà degli anni '70 ed il 2003. L'opera di divulgazione dei suoi contributi all’architettura normanna calabrese si concluderà con un ulteriore volume; ad oggi in elaborazione].






    ARCHIVIO STORICO DELLA CALABRIA - Nuova serie
    A cura di Giovanni Pititto

    SEZIONE REGNO: COMITIS ROGERIJ. ICONOGRAPHIA. 




    2001. Pannello didattico facente parte della serie allestita in occasione della mostra: 
    "Ruggero I e la provincia melitana". 
    I testi e la ricerca icnografica, come per i consimili della medesima serie, sono di Occhiato. 
    La serie integrale di tali pannelli è ad oggi esposta in bella vista presso i locali di visita del Museo di Mileto. 
    Costituendo una sorta di Semantica obbligata dei percorsi archeologici e storico-artistici, 
    di cui alla molteplicità dei reperti ivi esposti. 
    L'Opera di Giuseppe Occhiato è, per la Direzione di quel Museo 
    (non privato bensì statale)
    ritenuta talmente indiscutibile da essere ivi assunta a Canone. 
    Tanto, qui si ritiene, costituisce un unicum









    ARCHIVIO STORICO DELLA CALABRIA - Nuova serie

    A cura di Giovanni Pititto


    SOGGETTARIO
    1. 1454. Fonti Aragonesi (1454-1494). (ASC-NS, n° 5).  
    2. 1494-1850.
    3. 1548. Li grandissimi Apparati Triomfi (et) Feste fatti nella Città di Genova per la Entrata del Serenissimo Principe di Spagna. (ASC-NS, n° 5).   
    4. 1548. Li grandissimi Apparati Triomfi (et) Feste fatti nella Città di Genova per la Entrata del Serenissimo Principe di Spagna. 
    5. 1573. ITALIA. CALABRIA. MILETO ANTICA. ABBAZIA DELLA SS.MA TRINITA'. Sarcofago (?) del Conte Ruggero.
    6. 1581-1795. Giurisdizione e territorio Abbazia SS.ma Trinità di Mileto. Documenti. Schede trascrittive a cura di Giovanni Pititto. (ASC-NS, n° 5).  
    7. 1588. DEL TUFO. Marc’Antonio Del Tufo, SINODO DIOCESANA… § II. Del Sacramento della confirmazione. § Capitoli I-IX (ASC-NS, n° 5).
    8. 1588. Mileto. Del Tufo. SINODO / DIOCESANA / CELEBRATA DAL / REVERENDIS. MONS. / M. ANTONIO DEL TUFO / VESCOVO DI MILETO NELLA SUA / Cathedrale à gli otto e nove d'Aprile 1587. /
    9. 1589, aprile 22. Genova. La sontuosissima e pomposa entrata della serenissima granduchessa di Toscana, nell'inclita città di Genova. (ASC-NS, n° 5).  
    10. 1598-1600. CAMPANELLA. Tommaso Campanella, La Monarchia di Spagna. (ASC-NS, n° 5).
    11. 1638. DIANA. Resolutiones morales: in tres partes distributae 
    12. 1659. Calabria. Terremoto 1659. (ASC-NS, n° 5).     
    13. 1734. ZAVARRONI: STORIA E FONTI CALABRIA.
    14. 1757. Napoli. Bernardo Tanucci alla Tesoreria di Stato. Antonio Raffaello Mengs. (ASC-NS, n° 5).
    15. 1757. Roma. Alberico cardinale Archinto, a Bernardo Tanucci. Su Antonio Raffaello Mengs. E risposta non datata. (ASC-NS, n° 5).
    16. 1757. Roma. Antonio Raffael Mengs a Bernardo Tanucci. (ASC-NS, n° 5).  
    17. 1761. Roma. Johan Joachim Winckelmann a Bernardo Tanucci. E risposta non datata. (ASC-NS, n° 5). 
    18. 1762. § PARTE I. § CAP. III. Si dimostra contenervi nel diploma errori di dritto, e di fatto, i quali dal conte Ruggieri commetter per alcun patto mai si potevano. (ASC-NS, n° 5). 
    19. 1762. CIMAGLIA. Natale Maria Cimaglia, Della natura e sorte della badia della SS. Trinità e S. Angelo di Mileto, Napoli, 1762. 1763. Roma. Johan Joachim Winckelmann a Bernardo Tanucci. (ASC-NS, n° 5).    
    20. 1769. CARAFA. Giuseppe Maria Carafa (vescovo di Mileto), Difesa del vescovo di Mileto… -CAP. V. In cui dal silenzio de’ scrittori contemporanei si rileva non aver il conte fondato alcun monastero in Mileto… - § I-XXI. (ASC-NS, n° 5). 
    21. 1777. Napoli. Ferdinando IV. Carlo De Marco. Dispaccio reale. (ASC-NS, n° 5).   
    22. 1794. METASTASIO Zenobia
    23. 1799. Napoli. Generale francese, Championnet. Corrispondenza ed atti di governo. (ASC-NS, n° 5). 
    24. 1802. Napoli. Francesco Seratti, a Leopoldo Salerno, direttore reale armeria. (ASC-NS, n° 5). 
    25. 1802. Napoli. Marchese del Vasto, maggiordomo maggiore del re, al direttore dell'armeria reale di Salerno. (ASC-NS, n° 5).
    26. 1812. Palermo. Ferdinando, re. Potestà vicario generale Regno di Sicilia figlio Francesco, erede e successore. Atti e carteggi. (ASC-NS, n° 5). 
    27. 1836. 1848. 1850. 1852. 1854. 1867. 1858. LE MAGASIN / PITTORESQUE.
    28. 1840. GONIN. Illustratore Promessi Sposi.
    29. 1850. ITALIA. REGNO DELLE DUE SICILIE. SANFILIPPO. Compendio della storia di Sicilia
    30. 1862. Oneglia, Comune di. Riedizione Vincenzo Canepa opera di Lorenzo Capelloni su Andrea Doria. (ASC-NS, n° 5). 
    31. 1883. RIVA Manuale di Filotea
    32. 1896. DAYOT. Armand Dayot, Napoleone nelle opere de’ pittori, degli scultori, degli incisori. - Capitolo I. (ASC-NS, n° 5).   
    33. 1898. Nicola Tavella, Beni e rendite parrocchia SS.Trinità. (ASC-NS, n° 5).  
    34. 1902. Domenico Taccone-Gallucci. MILETO. SEDE EPISCOPALE. CRONOTASSI / DEI / METROPOLITANI
    35. 1902. TACCONE. Domenico Taccone-Gallucci, Episcopato di Mileto. (ASC-NS, n° 5).
    36. 1902. TACCONE-GALLUCCI.Domenico Taccone-Gallucci, Calabria. Regesti romani pontefici.- Prefazione (ASC-NS, n° 5). 
    37. 1907. MASSARANI. Illustri e cari estinti: commemorazioni ed epigrafi
    38. 1911. Manuscrits autographes incunables et livres rares
    39. 1913. VITTORI. Simboli wagneriani
    40. 1914. LUSSANA. Attraverso la Spagna.
    41. 1914. RICCI Volterra
    42. 1915. MERCATALI. La guerra italiana. Cronistoria illustrata degli avvenimenti.
    43. 1921. ANNONI. Ambrogio Annoni, Cappella de' Polentani nella chiesa di S. Francesco di Ravenna. (ASC-NS, n° 5). 
    44. 1921.RAULICH.Manuale di storia contemporanea d'Europa.
    45. 1922. Der Stille Garten.
    46. 1923. PANZINI Alfredo: Diario sentimentale della guerra: dal maggio 1915 al novembre 1918.
    47. 1933-1934. PRAMPOLINI. Storia universale della Letteratura
    48. 1933-1934. PRAMPOLINI. Storia universale della Letteratura
    49. 1935. LUMBROSO. Alberto Lumbroso, Napoleone e la sua Corte.- Premessa (ASC-NS, n° 5).
    50. 1935. ROSSI DE PAOLI. Paolo Rossi De Paoli, Isolamento Augustéo - Roma. (ASC-NS, n° 5). 
    51. 1936. ILLUSTRAZIONE (L') ITALIANA - 5 aprile 1936.
    52. 1940. THE METROPOLITAN / MUSEUM OF ART. 1940.
    53. 1940.CARAFFA Il monastero florense di S. Maria della Gloria presso Anagni.
    54. 1943-1945. Cefalonia. 1943. Divisione Acqui. - Bibliografia. Grecia. Cefalonia. 1943.
    55. 1943-1945. Cefalonia. 1943. Divisione Acqui. - Filmografia. Grecia. Cefalonia. 1943.
    56. 1943-1945. Franzinelli. Le Stragi nascoste. Fossoli. Campo nazifascista di internamento. Italia. 1943-1945.
    57. 1943-1945. Germania. Resistenza in Germania sotto il totalitarismo nazista
    58. 1943-1945. Tamaro. Due anni. Italia. 1943 - 1945. Guerra Civile. Fascismo. RSI. Processo di Verona.
    59. 1944. CIONE. ITALIA. REGNO DUE SICILIE. ROMANTICISMO. Napoli romantica: 1830-1848.
    60. 1945. TRIARIUS, Settembre 43. La Tragedia di Cefalonia. (ASC-NS, n° 5).              
    61. 1946. ROBERTI. Melchiorre Roberti, Milano napoleonica (1796 -1814).- Presentazione. (ASC-NS, n° 5).
    62. 1950. FILANGIERI. Riccardo Filangieri, Relazione su acquisto Archivio di Casa Borbone. (ASC-NS, n° 5).
    63. 1950. LAURENT. M. H. Laurent. Per un bollario dell’abbazia di Mileto. - Regesti I-X. (ASC-NS, n° 5). 
    64. 1952. DUCATI. Pericle Ducati, Arte Classica – Cronistoria Archeologica. - Prima parte: 1401-1899. (ASC-NS, n° 5). 
    65. 1953. VALLARDI. Manuale del raccoglitore e del negoziante di stampe”.
    66. 1956. CAMESASCA. Ettore Camesasca (a cura di), Raffaello Sanzio. Scritti. (ASC-NS, n° 5). 
    67. 1959. MENAGER. L. R. Menager, L’abbaye bènèdectine de la Trinitè de Mileto, in Calabre, à l’èpoque normande. (ASC-NS, n° 5). 
    68. 1963. MAZZOLENI. Jole Mazzoleni, ASN. Quinternioni. (ASC-NS, n° 5). 
    69. 1964. LUKACS. La distruzione della ragione.
    70. 1966. Abdallah di terra e di mare. Favole sonore - Illustrazioni di Ferri - Pisu.
    71. 1967. FERRARA. REGNO DUE SICILIE. SOVRANI. Francesco I e Ferdinando II. 
    72. 1970. BARLOZZINI. Guido Barlozzini, Vita civile a Napoli alla fine del '700. (ASC-NS, n° 5).  
    73. 1971. CIUFFOLETTI. Zeffiro Ciuffoletti, Regno Italico. (ASC-NS, n° 5)
    74. 1972. ARENA. Milano per la storia dell'Ordine di Malta in Lombardia - Secoli XII-XIX. Documenti
    75. 1972. BORGESE. La Famiglia artistica milanese nel centenario.
    76. 1972. NATOLI. I Beati Paoli. SICILIA. PALERMO.
    77. 1973. INSOLERA. Italo Insolera, Ventennio dei grandi sventramenti. (ASC-NS, n° 5).
    78. 1973. S. Leucio. Il complesso architettonico S. Leucio-Vaccheria: alcune note urbanistiche e di lettura ambientale. (ASC-NS, n° 5).
    79. 1974. ACCHIAPPATI. Gianfranco Acchiappati, Foscolo a Milano. - Presentazione e Cap. I. (ASC-NS, n° 5).
    80. 1974. DELOGU. Paolo Delogu. Centro Archeologia Medievale Università Salerno. Statuto. (ASC-NS, n° 5).
    81. 1974. PALAZZESCHI-ZANOTTO. Primo Conti.
    82. 1974. RUSSO. Francesco Russo, Calabri. Regesto Vaticano. § Introduzione. Fonti. Repertori. (ASC-NS, n° 5).
    83. 1975. ROUSSEAU. Passeggiate sognatore solitario.
    84. 1976. BOTTARI. M. G. Bottari, Lettere su pittura, scultura ed architettura scritte da’ celebri personaggi. - Il Tipografo e gli Editori. (ASC-NS, n° 5).  
    85. 1976. MISEFARI. CALABRIA. STORIA SOCIALE.
    86. 1979. PESSOA. Il libro dell'inquietudine.
    87. 1979. SPINOZA. Nicola Spinosa, Ricerca archivistica e studi arti figurative a Napoli nel Settecento. (ASC-NS, n° 5). 
    88. 1981. BUGLI. Libro figurato Autore.
    89. 1983. PIERONI. La gaia apocalisse.
    90. 1983. VESPIGNANI. Mostra. Grafica. Chianciano Terme. 1983.
    91. 1984. DI LEVA. REGNO NAPOLI. SORRENTO. Assedio 1648.
    92. 1984. GINESI. Armando Ginesi. XLI Biennale Internazionale d'Arte - Venezia - Padiglione San Marino. (ASC-NS, n° 5).
    93. 1986. I sinodi postridentini della Provincia ecclesiastica di Genova. 1986
    94. 1987. SCULTURA. PAGLIUCHI. Italy. Toscana. Pallero...
    95. 1987. SCULTURA. PAGLIUCHI.. Pagliuchi-scultore-1987.
    96. 1989. CHRISTOMANOS Constantin. Elisabetta d'Austria.
    97. 1989. ITALIA ROMANA. BRUTIUM. PROCOPIO. Vibo Valentia: colonia e municipio romano
    98. 1990. MARAINI. Dacia Maraini. Marianna D_Ucrìa. 1990.
    99. 1991. MARESCA. Beni culturali e mercato europeo. Norme sull'esportazione nei paesi della comunità.
    100. 1992. FRAZER. Il Ramo d'Oro.
    101. 1992. ITALIA. CALABRIA. MONACHESIMO. VECCHIO. Monachesimo basiliano in Calabria.
    102. 1992. SANTAGIULIANA. Il_Giudice_di_Dio. Gerolamo Federici (1516-1579).
    103. 1993. MARTULLO APPAGO. Maria Antonietta Martullo Arpago, Principato Citeriore tra Antico Regime e Conquista Francese. (ASC-NS, n° 5).  
    104. 1993. ZECCHI. ESTASI. Stefano Zecchi: Mi piace ill...
    105. 1994. Messina. Restauro pergamene Fondo Messina. (ASC-NS, n° 5).  
    106. 1994. Studi di storia dell'arte in onore di Mina Gregori. 
    107. 1995. DELLE DONNE. Fulvio delle Donne, Pietro da Eboli, Liber ad honorem Augusti. (ASC-NS, n° 5). 
    108. 1995. PITITTO. Giovanni Pititto (a cura di), Materiali per uno Stato Civile Antico di Mileto. 1596 - 1783. - Serie 2: Demografia. Nascite: 1603-1674. (ASC-NS, n° 5). 
    109. 1995. THEA. Paolo Thea, Sigilli. (ASC-NS, n° 5).  
    110. 1998. TACCHELLA. Lorenzo Tacchella, Visite Ad Limina Apostolorum Diocesi di Mileto. (ASC-NS, n° 5). 
    111. 1999. CASPAR. RUGGERO II. NORMANNI - ITALIA MERIDIONALE - SEC. XI.-XII.
    112. 1999. FRANZINELLI. Ultime lettere. La scrittura da...
    113. 1999. FRANZINELLI. Ultime lettere. La scrittura davanti alla morte. Italia. 1943 - 1945.
    114. 1999. Giuseppe Occhiato, Vicende dei sarcofagi miletesi.
    115. 1999. MONTESANTI. Antonio Montesanti, Tra Mare e Terra. § Cap. V. Porto di Bivona. (ASC-NS, n° 5). 
    116. 1999. NOCENTINI. Giovanni Nocentini, L'Amore proibito di Cosima Liszt. (ASC-NS, n° 5). 
    117. 2000. ENZENSBERGER. Horst Enzensberger, Greci nel Regno di Sicilia. (ASC-NS, n° 5).
    118. 2000. MAURENSIG. Venere_lesa
    119. 2001. DELL’ACQUA. Francesca Dell’Acqua, Vetro nell’Architettura Italiana Meridionale (VIII-XII sec.) (ASC-NS, n° 5). 
    120. 2001. FRANCOLINI - PITITTO - GIAMPAGLIA. Abbazia di San Michele Arcangelo e della SS.ma Trinità di Mileto. Fonti. Diplomatico. Regesti. Baldassarre Francolini (S.I.), Pontificio Collegio Greco di Sant’Atanasio, Roma, Archivio, Sezione Mileto, ms. 046 (1763). Index diplomatum seu monumentorum quae asservantur in tabulario Collegii Graecorum de Urbe. (Prima parte) Schede trascrittive ed elaborazioni dati a cura di Giovanni Pititto. Traduzione e revisione dei testi latini a cura di Amedeo Giampaglia. 2001. Pubblicati in questo Numero (regesti nn. 31-42): - 1216. Roberto di Say. Giudicato e donazione. - 1221. Transunti di vari atti donativi. - 1250. Beni in territorio di Vibona; - idem (1251) in territorio di Milazzo. - 1257. Chiesa di S. Croce presso Gerace. - 1255. Monastero S. Nicodemo di Mammola. - 1255. Borghi di Castellaro, Larzona, S. Gregorio, Vibona. Giurisdizione. - 1267. Monastero S. Nicodemo di Gruttaria. 
    121. 2001. GRANDE. Torino.
    122. 2001. Marilisa MORRONE NAYMO, Riuso dell’antico nei Monumenti Ruggeriani in Mileto. 
    123. 2002. SPADACCINI. Rossana Spadaccini. Museo storico Grande Archivio di Napoli. (ASC-NS, n° 5).
    124. 2002. STAGNO. Laura Stagno, Sovrani spagnoli a Genova: entrate trionfali ed “hospitaggi” in casa Doria. (ASC-NS, n° 5). 
    125. 2002. TOBIA. Salve o popolo d'eroi... La monumentalità fascista nelle fotografie dell'Istituto Luce.
    126. 2003. DE CARO. Marcello De Caro, Internati Militari Italiani tra Memoria, Rimozione, Oblio. (ASC-NS, n° 5).  
    127. 2003. DI DOMENICO. Per le faustissime nozze : nuptialia della Biblioteca Braidense                                        
    128. 2003. MAZZEO. Mimmo Mazzeo, Parola Mia. (ASC-NS, n° 5).                                                                                      
    129. 2003. PAOLETTI. Paolo Paoletti, La vicenda della Divisione Acqui 1943-1944. (ASC-NS, n° 5). 
    130. 2003. PITITTO. Giovanni Pititto (a cura di), Beni Culturali. Politica e Legislazione in materia di Tutela nell’Italia Pre-Unitaria. (ASC-NS, n° 5).
    131. 2003. SARDI. Giulio Sardi, Anche Cefalonia - come la Resistenza. (ASC-NS, n° 5). 
    132. 2003. SPACCUCCI – CURCI.Felice Spaccucci, Giuseppe Curci, Arcidiocesi di Trani. (ASC-NS, n° 5).
    133. 2004. FARINELLA. Calogero Farinella, Il «genio della libertà». Società e politica a Genova dalla Repubblica Ligure alla fine dell’impero napoleonico. (ASC-NS, n° 5).            
    134. 2005. BATTIFORA. Paolo Battifora. Cefalonia ’43: una tragedia che fa ancora discutere. (ASC-NS, n° 5).
    135. 2005. RAMELLI. Corpus Hermeticum.
    136. 2005. SCHREIBER. Gerhard Schreiber, “Prigionieri non se ne fecero”. (ASC-NS, n° 5).  
    137. 2006. CARUSO. Alfio Caruso, Cefalonia un anno dopo. (ASC-NS, n° 5).  
    138. 2006. CRAVERI. La_civiltà_della_conversazione.
    139. 2007. CARIOTI. Antonio Carioti, Cefalonia, gli italiani non tradirono. (ASC-NS, n° 5).  
    140. 2007. ROMANO. Corrado Romano, Protocolli curiali. (ASC-NS, n° 5).
    141. 2007. TRIPODI. Antonio Tripodi, Monteleone. Arte. (ASC-NS, n° 5).       
    142. 2008. GARIBALDI. Milano. Museo del Risorgimento. Mostra. Giuseppe Garibaldi.
    143. 2008. VERDILE. Nadia Verdile, Ferdinando IV di Borbone. Lettere da Caserta a Maria Carolina (1788-1789). Serie 2 (Da 12 ottobre a 18 ottobre 1788). (ASC-NS, n° 5). 
    144. 2009. Cefalonia, i 720 morti della nave Ardena. (ASC-NS, n° 5). 
    145. 2009. DE DONNO. Luciano De Donno, Spedizione Subacquea Italiana a Cefalonia. (ASC-NS, n° 5).
    146. 2009. DE DONNO. Luciano De Donno, Spedizione Subacquea Italiana a Cefalonia. (ASC-NS, n° 5).
    147. 2009. HESSE. Italy. Gaeta. Bastione Philippstal. Sepolcro landgravio principe Ludwig von d’Hesse-Phillippsthal.(2a parte)
    148. 2009. MARABELLO. Gaetano Marabello, Quell’uom dal fiero aspetto. (ASC-NS, n° 5).
    149. 2009. MASCILLI MIGLIORINI. Luigi Mascilli Migliorini, La battaglia di Maida nella storiografia europea. (ASC-NS, n° 5). 
    150. 2009. MINERVINO. Mauro F. Minervino, Le mie Esperidi. Gissing e la Calabria tra storia, mito e letteratura. (ASC-NS, n° 5).
    151. 2009. NAPOLEONE: Epistolari. (1796, giugno 20 - 1796, luglio 22). (ASC-NS, n° 5). 
    152. 2009. NAYMO. Vincenzo Naymo, Appartenenza e senso di fedeltà alla corona nel Regno di Napoli in età spagnola. (ASC-NS, n° 5). 
    153. 2009. NISTICO’. Ulderico Nisticò, Il regno e il re. (ASC-NS, n° 5). 
    154. 2009. PELLEGRINO. Carmelo Pellegrino, Gli abusi feudali e le radici popolari della rivoluzione in Calabria. (ASC-NS, n° 5).
    155. 2009. PICCOLI. Salvatore Piccoli, La battaglia di Maida del 1806 nel panorama storico e sociale della Calabria. (ASC-NS, n° 5).
    156. 2009. PORTA. Adriana Porta, Vecchie e nuove fedeltà. Alla ricerca di un ordine legittimante dopo la Rivoluzione di maggio del 1810. (ASC-NS, n° 5).  
    157. 2009. RAMONDINO. Filippo Ramondino, Il governo episcopale di Mons. Enrico Capece Minutolo durante il Decennio Francese. (ASC-NS, n° 5).   
    158. 2009. TRISCHITTA. Domenico Trischitta, La cartografia, il territorio e la battaglia di Maida. (1806). (ASC-NS, n° 5).
    159. 2011. F. Pititto. Battaglia (1807).
    160. 2011. Parzifal. Omaggio a Ruth Orkin. Foto di Andreina Baj, Giovanni Pititto, Gabriele Zucchella. (ASC-NS, n° 5). 
    161. 2011. SANTINI. GEOGRAFICA. Pegli. Villa Centurione-Doria. Museo Navale. Cartografo Paolo Santini. Foto di Giovanni Pititto. 001.
    162. 2011. VENTURINI. Francesco Venturini, Il Fiume (Racconto). § IV La strada - § V La spiaggia - § VI La foresta. (ASC-NS, n° 5).
    163. 2012. ANNO I (2012) - Numero 5 (ASC-NS, n° 5). 
    164. 2012. APPENDICE I - LABORATORIO (ASC-NS, n° 5). 
    165. 2012. APPENDICE I (ASC-NS, n° 5).
    166. 2012. APPENDICE II – NARRATIVA (ASC-NS, n° 5).
    167. 2012. APPENDICE II (ASC-NS, n° 5). 
    168. 2012. APPENDICE III - APPARATI FILOLOGICI (ASC-NS, n° 5). 
    169. 2012. ARCHIVIO STORICO DELLA CALABRIA - NUOVA SERIE - A CURA DI GIOVANNI PITITTO (ASC-NS, n° 5).
    170. 2012. ARCHIVIO STORICO DELLA CALABRIA - Nuova serie - Anno I (2012), numero 5. Pubblicazione in formato Epub / Ebook - Rif.: 2281-1109-5 - ISSN 2281-1109 (ASC-NS, n° 5).                                                                           
    171. 2012. ARCHIVIO STORICO DELLA CALABRIA - Nuova serie - Sommari.
    172. 2012. CARACCIOLO. Antonio Caracciolo, Seminara. (ASC-NS, n° 5). 
    173. 2012. Casa Editrice Pellegrini per la cortese autorizzazione: http://www.pellegrinieditore.com/banner-cinema.html?page=shop.product_details&flypage=bookshop-flypage.tpl&product_id=899&category_id=151&manufacturer_id=1) (ASC-NS, n° 5). 
    174. 2012. Continuazione dell’Archivio Storico della Calabria, fondato e diretto da Francesco Pititto e da Hettore Capialbi; già edito in Mileto (1912 - 1918) (ASC-NS, n° 5).      
    175. 2012. Direttori: Giovanni Pititto - Saverio Di Bella - Walter Pellegrini (ASC-NS, n° 5). 
    176. 2012. ITALIA E SPAGNA (ASC-NS, n° 5).   
    177. 2012. Italia. 1943 - 1945. Cefalonia. Divisione Acqui. (ASC-NS, n° 5).
    178. 2012. ITALIA. REPUBBLICA DI GENOVA. (ASC-NS, n° 5). 
    179. 2012. LABORATORIO - Appendice filologica. (ASC-NS, n° 5).
    180. 2012. LOCATELLI. Angelo Locatelli, Naufragio nave Ardèna. (ASC-NS, n° 5).                                                                  
    181. 2012. MANDARANO – ZAMBONI.Davide Mandarano – Roberto Zamboni (a cura di). Gli I.M.I. della Basilicata deceduti e sepolti nei territori del Reich. Elaborazione dati da R. Zamboni (Dimenticati di Stato), e schede introduttive a cura di D. Mandarano. BASILICATA (ASC-NS, n° 5).  
    182. 2012. Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy / Via De Rada, 67/c - 87100 Cosenza - Tel. 0984 795065 - Fax 0984 792672 / Sito internet : www.pellegrinieditore.it / E-mail : info@pellegrinieditore.it / I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. 2012. Roma (19 ottobre 2012). Rinvio a giudizio Stork. (ASC-NS, n° 5).    
    183. 2012. ROMANO. Corrado Romano(a cura di), Parlamenti Terre San Calogero e Calimera. (ASC-NS, n° 5).
    184. 2012. SEZIONE I - NAPOLEONICA (ASC-NS, n° 5).  
    185. 2012. SEZIONE II: REGNO DI NAPOLI E DELLE DUE SICILIE. (ASC-NS, n° 5). 
    186. 2012. SEZIONE III: CALABRIA. (ASC-NS, n° 5). 
    187. 2012. SEZIONE IV: MILETO. (ASC-NS, n° 5).  
    188. 2012. SEZIONE IX: FONTI E BIBLIOGRAFIA (ASC-NS, n° 5). 
    189. 2012. SEZIONE V: MEDITERRANEA (ASC-NS, On° 5).   
    190. 2012. SEZIONE VI: LE ARTI. (ASC-NS, n° 5).  
    191. 2012. SEZIONE VII: CEFALONIA – Divisione “Acqui”. (ASC-NS, n° 5).            
    192. 2012. Sommario (ASC-NS, n° 5).             
    193. 2012. ZAMBONI. Roberto Zamboni, Dimenticati di Stato. Elenchi onomastici I.M.I. d’Italia: Gli I.M.I. della Basilicata deceduti e sepolti nei territori del Reich. BASILICATA (ASC-NS, n° 5).                                                                                     
    194. 2014. VENTURINI Cani Treni Sirene.


    Roma. 002.
    02. Roma. Castel Sant'Angelo.



    28. Roma. Tevere. Castel Sant'Angelo e San Pietro veduti al tramonto.


    Progetto Parzifal
    Dolci Presenze del Viandante seguono l'Ombra in questo Silenzio popolato di Assenza.

    Viaggiare. Dentro. Fuori.
    Occhi. Lago di Nuvole.


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