2001. PEDUTO

SAGGI DI SCAVO NELLA MILETO VECCHIA IN CALABRIA (1995 E 1999)
di ROSA FIORILLO, PAOLO PEDUTO

NOTA INTRODUTTIVA

    Mileto, in provincia di Vibo Valentia, è oggi uno dei centri della Calabria dove la disoccupazione sfiora o supera il 60%. Per alloggiare non vi sono che due albergucci, non v’è nulla che attragga un possibile visitatore, tranne un Museo, addirittura Nazionale, sistemato di recente in un’ala del palazzo diocesano - restaurato con i fondi dello Stato e, probabilmente, a questo dato in fitto - per la sistemazione di opere religiose come pianete, stole, quadri dal soggetto sacro, ma che ospita anche molti reperti scultorei ed architettonici provenienti dalla città medievale. In un’altra ala dello stesso palazzo è collocata una scuola statale, anche qui vi sarà un giusto fitto. Con i fondi elargiti ancora una volta dallo Stato per il Giubileo si sta procedendo al restauro di un grande edificio posto di fronte al palazzo vescovile, un ex monastero di proprietà della curia che dovrebbe essere destinato a biblioteca della diocesi. Le uniche attività economiche di un certo rilievo a Mileto sembrano, dunque, limitate all’azione pastorale del vescovo.
    La città medievale sorgeva sulla dorsale tra due colline di arenaria, circondate da profondi valloni ad ovest e a sud, e dominava la sottostante strada (Fig. 1). Essa controllava il tratto superstite dell’antica consolare Annia- Popilia, che attraverso l’altopiano del Monte Poro, dalla lontana Capua raggiungeva Reggio Calabria.
    Nelle cronache medievali Mileto sembra sia stata un castrum tolto ai Bizantini e finito nelle mani di Ruggero, fratello di Roberto il Guiscardo. Non saprei dire se la conquista fu dettata dalla volontà di porre un caposaldo utile, in prospettiva, ad isolare il principato longobardo di Salerno, che a Sud aveva i suoi confini lungo l’istmo S. Eufemia-Ca- tanzaro, o addirittura con una lungimiranza che riterrei eccessiva, a predisporre una base per la successiva conquista della Sicilia. La fortuna dei Normanni di Mileto scaturì dalla richiesta di una fazione araba che li chiamò nell’isola contro altri Arabi. A quel punto Mileto, come ravvisò Ernesto Pontieri, divenne la base operativa per la conquista della Sicilia (vd.AMARi 1880-81 per le numerose citazioni dei diversi cronisti arabi che ricordano l’episodio). Nella traduzione delle diverse cronache arabe Mileto viene detta talvolta rocca, talora città. La presenza della sede vescovile rende compiuta la seconda immagine, ma non v’è dubbio che la città sia stata fortificata così da apparire come una rocca, anche se non v’è più alcuna traccia né delle sue mura difensive, né del castello posto sul vertice della collina.
    Per i Normanni Mileto avrebbe dovuto assumere un forte ruolo di controllo economico e politico con la latinizzazione della regione fino ad allora strettamente dipendente dal potere greco-bizantino '. Perciò furono fondati, e dotati di estese proprietà e numerose dipendenze, i due monasteri di S. Maria a S. Eufemia e della SS. Trinità a Mileto. Del primo monastero, collocato nella pianura, rimangono ruderi imponenti e sarebbe stato utile proseguire i saggi intrapresi nel 1992-93 poiché dalle iniziali evidenze materiali appaiono molte le analogie con il secondo (RUGA 1994; Di GANGI 1994).
    Famosa soltanto per essere stata la residenza preferita di Ruggero, Mileto decadde lentamente e già tra i secoli XIII e XIV aveva perduto l’originale interesse strategico
1 von FALKENHAUSEN 1998, a p. 116 sottolinea: «La latinizzazione politica è dimostrata dal fatto che molti vescovi in Calabria e Sicilia provenivano da Mileto».
assunto durante la prima fase della conquista normanna del Sud, fino a che fu definitivamente abbandonata dopo il terremoto del 1783.
    Nel 1995, d’intesa con la Soprintendenza Archeologica di Reggio Calabria e con l’amministrazione comunale di Mileto, condussi, durante una breve campagna di scavi, alcuni saggi a ridosso dell’abside sud della chiesa abbazia- le dedicata alla SS. Trinità, con l’intento di verificare la consistenza stratigrafica del sito per predisporre un più ampio e sistematico intervento 2. Nell’ottobre del 1999 ho eseguito, con l’aiuto di alcuni miei collaboratori, il rilievo stratigrafico di ciò che rimaneva dell’abbaziale 3.
    Gli scavi hanno evidenziato che la chiesa abbaziale fu costruita su un banco di arenaria bianca e, almeno per la parte esplorata, non hanno rivelato tracce di costruzioni precedenti. La planimetria della chiesa fu disegnata incidendo il banco di arenaria spianato, sicché la trincea di fondazione risulta perfettamente contigua ai soprastanti muri in opera quadrata, realizzati in conci di travertino, un calcare non locale, cavato e trasportato da lontano. Nello stesso banco di arenaria furono ricavate due tombe a cassa con loggetta e tredici ad inumazione semplice, prive di corredo, ascrivibili alla prima fase dell’impianto cimiteriale (Fig. 2). Per entrambe le tipologie l’orientamento degli inumati è risultato costantemente in direzione ovest/est. Le tombe a loggetta presentavano la copertura in mattoni disposti a doppio spiovente, spallette sempre in mattoni e piano di deposizione ancora in mattoni, dalla misura di mm 52/54*242*157. Ad una fase molto più tarda del sepolcreto appartengono una tomba monumentale, parzialmente distrutta e priva di scheletro, e una sepoltura terragna ricavata nello strato (uS8) costituito da detriti giacenti a ridosso dell’abside sud.
    La sepoltura terragna, non disturbata da successivi interventi o manomissioni, conteneva uno scheletro (il n. 1) con accanto un rosario in osso e sei monete: cinque di Filippo II ed una di Filippo III. Una settima moneta di Ferdinando d’Aragona (1412-1416) non si ritiene appartenga al defunto, ma sarà piuttosto finita per caso nel terreno nel quale fu scavata la fossa per la sepoltura. Lo scheletro n. 1 fu deposto (in US8), quando il livello di frequentazione copriva la fondazione (US4) della struttura seicentesca (US3). Il costante riciclo delle macerie e il dilavamento del terreno hanno poi ridotto negli anni odierni la quota di frequentazione fino al punto da mettere in vista la fondazione della cosiddetta sacrestia, lasciando soltanto pochi centimetri di terra a coprire la deposizione. Il rosario era composto da cinquanta piccoli grani di avorio, tre grandi, tre di forma allungata ed una medaglietta. Poiché delle sei monete la più recente è un mezzo carlino d’argento del 1611, e la sepoltura è ricavata all’interno di uno strato di detriti addossato all’abside, appare evidente che già prima del terremoto del 1658, la chiesa abbaziale era in uno stato di semi abbandono.
    Frammenti di opus sectile ritrovati negli stessi strati di detriti (UUSS 8, 20) confermano che a metà del XVII secolo l’originale pavimentazione dell’abbaziale aveva sicuramente subito dei guasti e delle manomissioni. Il pavimento era realizzato, stando ai frammenti ritrovati, in porfido rosso e serpentino verde, prodotti di spoglio di mo-
    2 Ringrazio il soprintendente dott. ssa Elena Lattanzi e la dott. ssa Silvana Iannelli, direttrice del Museo Archeologico di Vibo Valentia, per aver voluto sostenere l’intervento della mia équipe: senza il loro aiuto non sarebbe stato possibile realizzare alcunché. Numerosi sono gli studi su Mileto normanna, ma qui indico soltanto l’ampio lavoro di G. Occhiato (La Trinità di Mileto nel romanico italiano, Cosenza 1994) al quale rimando per l’esaustiva bibliografia. Una prima nota sugli scavi fu da me affidata a S. Marino, Tra Longobardi e Normanni. Lo scavo di Mileto, in Scavi Medievali in Italia (1994-1995), Atti della prima conferenza italiana di Archeologia Medievale, Cassino 14-16 Dicembre 1995, Roma 1998, pp. 85-92.
    3 Ringrazio, in particolare, l’architetto Tiziana Saccone ed il dott. Alfredo M. Santoro che hanno sviluppato il rilievo qui pubblicato.
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numenti antichi, ma anche da tessere di pietra locale, come attesterebbe una tessera di marmo nero. Queste sono le sole tracce della pavimentazione romanica della chiesa ab- baziale.
    In tali strati di detriti, immediatamente sovrapposti alle tombe della prima fase, sono state rinvenute numerose tessere vitree per vetrate. Qui, ai fini della stratigrafia, importa osservare che la collocazione topografica del rinvenimento, è ben distante dalla chiesa abbaziale ricostruita successivamente al terremoto del 1658, e che l’ubicazione dei reperti vitrei è in relazione alle absidi della primitiva abbaziale distrutte dal sisma. Ciò rafforza, al di là dell’analisi specifica delle lastre di vetro, la considerazione che tali reperti vitrei sono da ricondurre alla prima fase della costruzione dell’abbazia 4.
    Stando agli iniziali, ma ancora incompleti, rilievi della chiesa, risulta evidente, al di là delle numerose considerazioni degli studiosi sui due principali edifici succedutisi, quello di XI e quello del XVII secolo, che esistono alcune fasi intermedie rappresentate dalla costruzione di due campanili sul fronte della chiesa romanica, un westwerk ed un eastwerk, realizzati in corrispondenza della prima campata (Fig. 3). La presenza dei due campanili, ancora esistenti alla fine del secolo XVIII, è del resto ben leggibile nella raffigurazione dello Schiantarelli che nel 1783 disegna “dal vero” la città terremotata di Mileto (Fig. 4). In essa appaiono ben annotate l’imponente torre campanaria sud ed il campanile nord. La panoramica dello Schiantarelli è piuttosto dilatata e per tale motivo l’estensione della città appare abnorme, specialmente se si confronta la veduta settecentesca con la realtà attuale dei luoghi ripresa all’incir- ca dallo stesso punto di vista (Fig. 5).
    Fin dal secolo XIII si ha notizia di successivi terremoti che colpirono la regione, ma i dati certi che riguardano le scosse subite da Mileto risalgono ai tempi moderni. Già nel 1638 un terremoto aveva causato la morte di tre abitanti e distrutto 141 abitazioni (BARATTA 1901, p. 29). A queste si aggiungono le distruzioni causate dal terremoto del 1659 che degradarono l’abbaziale a tal punto da impedirne un vero e proprio restauro, e da costringere, per mancanza di risorse, ad una riedificazione che ne ridusse, e di molto, superficie e volume. Del resto il complesso della SS. Trinità era da oltre due secoli assegnato in commenda, con immaginabili conseguenze di perdita di potere e di degrado (SCORDINO 1971, p. 55). A causa del terremoto anche il vescovo, crollato il suo palazzo nel 1659, si rifugiò a Vibo Valentia (CORTESE 1934, p. 113, riporta nelle varie la notizia desunta da una lettera del vescovo di Catanzaro). Un secolo e mezzo dopo, 50 morti e 200 case abbattute convinsero i cittadini di Mileto a trasferirsi dov’è oggi la città, forse non lontano dal sito su cui si potrebbe localizzare la probabile Mileto romana (OCCHIATO 1998). Ai disastri dei numerosi terremoti che hanno nei secoli devastato la regione vanno aggiunti quelli causati da un lunghissimo ed aspro contrasto sorto tra il vescovo e l’abate fin dal momento della fondazione dell’abbazia e della elevazione di Mileto a sede della diocesi voluta da Ruggero I. Così il conte normanno dimostrava di conoscere alla perfezione quali fossero ai suoi tempi le condizioni politiche e le strutture religiose necessarie per assegnare a Mileto
lo status di città.
    Ma, salvo la parentesi normanna, Mileto non ebbe for-
      4 L’accumulo di detriti anteriore all’abbandono del 1783 all’esterno delle absidi è documentato, al di là dell’evidenza archeologica, nelle carte dell’Archivio del Collegio Greco di Roma. Devo alla cortesia di Giovanni Pititto, conoscitore profondo di quell’archivio, le informazioni dettagliate sui vari riporti ed accumuli delle macerie succedutisi nel corso del XVI e XVII secolo. Uno straordinario contributo alla storia di Mileto, specialmente per le vicende della storia moderna della città, potrebbe venire dal Pititto se egli, con la sua arguzia, fosse convinto a pubblicare sistematicamente l’enorme materiale che ha accumulato negli anni della sua ricerca.

Fig. 1 - Mileto. Veduta aerea del promontorio su cui sorgeva la città normanna. La carta è stata elaborata in modellistica solida (Shaded), una modellazione automatica basata sulla fotogrammetria. Tale processo risulta utile per evidenziare disturbi anche piuttosto minimi del terreno.

Fig. 2 - Mileto. Il saggio a ridosso dell ’abside sud. Si noti l’affioramento del banco di arenaria, inciso per allocarvi le sepolture, su cui venne elevata la chiesa abbaziale.
tuna. Troppi e violenti i terremoti misero nei secoli a dura prova il vigore degli uomini, spossati già prima da un potere dispotico e poi da un cupo feudalesimo dei tempi moderni.
    Limitandoci ai primi risultati dei pur limitati saggi e ai reperti sporadici raccolti da studiosi appassionati del luogo, si evince che a partire dal secolo XIII la città andò perdendo le peculiarità che le erano state procurate dai Normanni. Già ponendo attenzione al susseguirsi dei prodotti ceramici ci si accorge che la loro qualità va decrescendo dalle splendide invetriate della mensa signorile del secolo XIII, fino alle pessime terraglie dei secoli XVI- XVII. Le stesse strutture murarie che venivano talvolta restaurate o ricostruite acquisivano un carattere di provvisorietà, risultato, forse, dei materiali di crollo riutilizzati alla rinfusa. Le sepolture, quelle di età moderna, sono disposte in modo confuso: dalla ricchissima documentazione superstite si apprende come molti abitanti del circondario desiderassero farsi seppellire in quell’antica chiesa abbaziale, considerata ormai quasi alla stregua di un santuario popolare.
    Con il terremoto del 1783 la SS. Trinità di Mileto fu
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Fig. 3 - Mileto. Rilievo dei resti dell ’abbaziale. Le absidi originali, ad est, sono quasi del tutto distrutte. Si noti, ad sud-ovest, il grande basamento della torre campanaria principale, inserita in una seconda fase costruttiva, e, a nord.ovest le tracce del basamento di un campanile minore.

Fig. 4 - Mileto. Particolare del «rilievo» del 1783 dello Schiantarelli. Sul vertice della dorsale, a sinistra, sono riprodotti ancora in piedi i due campanili della abbaziale. Dal disegno si può notare che buona parte della città non è ancora crollata.

completamente scomposta fino alle fondamenta. In realtà
10 smontaggio era già iniziato più di un secolo prima, dopo
11 terremoto del 1659, quando il vescovo della città, in continua contesa con l’abbate, pretese di far commercio dei ruderi abbaziali, sia per riparare la sua cattedrale che per far soldi (Fig. 6). Si ripeteva a Mileto quel che accadde per molti monumenti della Calabria, come si apprende dalla straordinaria relazione del 1792 di Giuseppe Maria Galanti, inviato dal re perché riferisse sullo stato della regione a nove anni dal terribile terremoto che l’aveva devastata. Giunto a Monteleone, l’odierna Vibo Valentia, il visitatore annotò come da quel «...principale emporio della provincia, in uno stato tanto avvilito, si può prendere idea dell’avvilimento generale della provincia». Lo scopo dell’indagine consisteva nell’accertamento della situazione economica e sociale. Leggendo il suo Giornale di viaggio in Calabria, si capisce come la regione fosse stata devastata dal
terremoto nei beni materiali, ma spossata nello spirito dal regime feudale dei baroni e dalla Cassa Sacra, una sorta di Cassa per il Mezzogiorno, governata da funzionari inetti (GALANTI 1992, in part. p. 179). Dopo due secoli quel rapporto trasmette ancora al lettore una sensazione di impotenza, qualora si conosca la realtà contemporanea di alcune aree della regione. Del tutto distanti dalle preoccupazioni del funzionario borbonico erano, com’è naturale, le attenzioni per l’archeologia e la storia. Eppure egli, nel visitare ciò che rimaneva della certosa di Serra S. Bruno, osservò quanto dannoso fosse stato più l’intervento dell’uomo, nel ridurre tutto a un mucchio di rovine, che il terremoto stesso: «Queste rovine non sono tanto l’offesa del tremuoto, che degli uomini. I cadetti tolsero le catene che tenevano legate le fabbriche per venderle; essi scoprirono tutto l’edifizio per toglierne il legname, ed in seguito i Serresi per un poco di ferro rovinarono mura intiere. Sen
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Fig. 6 - Mileto. Sovraimposizione in scala reale della planimetria dell ’abbaziale sulla foto aerea. Le strutture meridionali dei cortili, o chiostri, specialmente verso sud-est (indicate dalle frecce), sono state spazzate via dall’erosione naturale, l’abside centrale e quella nord dalla mano dell’uomo.
za l’indegnità di costoro l’edifizio sarebbe stato facile a riparare.» (GALANTI 1992, p. 175). Stando ai rilievi dello Schiantarelli, la stessa cosa accadde, forse, alla chiesa ab- baziale della SS. Trinità di Mileto, poiché la natura dei luoghi costituita da banchi di arenaria friabile, quasi disgregata, costrinse a raccogliere qualsiasi pietra a portata di mano, per evitare di far giungere da cave più lontane, con insopportabili costi aggiuntivi, il necessario per ricostruire il paese dov’è ora. Questa, in definitiva, fu la causa principale della scarnificazione, fin dalle fondazioni, della città antica.
P.P.
LA CERAMICA
    Le ceramiche del sito abbaziale provengono per la maggior parte da rinvenimenti sporadici, mentre solo un numero esiguo è stato rinvenuto durante la campagna di scavo del 1995, pertanto per gran parte del materiale l’attribuzione della cronologia è stata effettuata esclusivamente per confronti.
    Su 1252 frammenti rinvenuti, che abbracciano un arco cronologico che va dai secoli XII-XIII al XVIII, sono stati distinti 360 frammenti di acroma, 320 frammenti di ceramica da fuoco, 128 frammenti di banda rossa, 159 di invetriata
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Tav. /- Ceramica; 1-2: Mileto Vecchia - Abbazia.


Tav. II - Ceramica; 6-9: Mileto Vecchia - Abbazia.
monocroma, 211 di invetriata dipinta su ingobbio, 10 di graf- fita, 33 di maiolica e 27 frammenti di ceramica smaltata.
    Per la ceramica da fuoco, acroma e invetriata, la frammentarietà dei reperti ha permesso il riconoscimento di poche forme, difficilmente distinguibili cronologicamente per la continuità d’uso di molti recipienti nel tempo. Tra questa un tegame (0 18,6 cm), una pentola triansata (0 9,5 cm) (Tav. I, figg. 1 e 2) e alcune pentole con bordi introflessi con orlo a sezione arrotondata (Tav. I, fig. 3).
    Un altro gruppo di reperti è costituito dai grossi contenitori da dispensa in ceramica acroma, destinati alla conservazione di alimenti liquidi e solidi, e dalle ceramiche da mensa ad impasto fine tra le quali olle e un albarello (Tav. I, figg. 4 e 5).
Per la banda rossa numerose sono le forme chiuse riferibili a brocche con motivi decorativi di spirali in rosso o arancio, un grosso frammento di anforaceo decorato a onde verticali ed orizzontali e una forma aperta riferibile ad una coppetta, che trovano confronto con i frammenti a banda rossa rinvenuti a Vibo Valenzia in località Piscino (Tav. II, figg. 6, 7, 8 e 9) (ARTHUR-PEDUTO 1991).
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Fig. 7 - Mileto. Frammenti di ceramiche dipinte ed invetriate su ingobbio (sec. XIII).

Tav. III - Ceramica; 10-14: Mileto Vecchia - Abbazia.
    Le invetriate monocrome e dipinte costituiscono le classi ceramiche più numerose. La monocroma è attestata da molte forme aperte, come coppe e bacini su piede ad anello o a disco, ricoperte all’interno da vetrina verde o incolore, tendente al giallo su spesso ingobbio bianco (Tav.
III, fig. 10), e da pochi contenitori su piede ad anello o a disco la cui forma non è ricostruibile per la frammentarietà dei rinvenimenti, invetriati esternamente a risparmio su ingobbio bianco e all’interno in verde ramina, con e senza ingobbio (Tav. III, figg. 11, 12). Questi reperti, collocabili cronologicamente tra XIII e XV secolo, sono da ritenersi manufatti locali. Si discosta da questa produzione soltanto
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Tav. IV - Ceramica; 15-18: Mileto Vecchia - Abbazia.
CD 360 Acroma
0211 Invetriata dipinta
? 159 Invetriata
3128 Banda Rossa
33
Maiolica
? 27
10 Smaltata
Graffita E
B2Prem edievale
E 2 Comune 1 dipinta
una coppetta con piede ad anello e vetrina giallina su ingobbio bianco: la coppetta, invetriata sia all’interno che all’esterno, presenta un impasto rosato (7.5YR 8/4) con numerosi inclusi micacei ed è da ritenersi un prodotto siciliano di XII secolo (Tav. III, fig. 13).
L’invetriata dipinta è sempre ingobbiata. Le forme aperte sono costituite principalmente da bacini e coppette, tron
coconiche o emisferiche, apode, con piede ad anello o a disco, con bordi piatti o leggermente estroflessi, o da bacini con piede ad anello con piccola tesa (Tav. V, fig. 19). Le argille, riccamente micacee, hanno colorazioni che vanno dal rosa (7.5YR 8/4), all’arancio (2.5YR 5/8), al rosso (10R 4/8), l’ingobbio è sempre presente all’interno e in un solo caso riveste anche l’esterno (Tav. III, fig. 14). La vetrina, sottile, incolore o leggermente giallognola, in corrispondenza del rosso in molti casi è saltata. La decorazione è nella maggior parte dei casi caratterizzata da virgole in rosso alternate a filetti concentrici in nero manganese (Tav.
IV, fig. 15) e puntini rossi, o rossi e verdi, alternati a filetti lineari sempre realizzato con manganese molto denso (Tav.
V, fig. 19). Sono inoltre presenti anche motivi decorativi geometrici, come rombi, zoomorfi, come pesci, e antropomorfi, come nel caso della coppetta raffigurante un cavallo con il suo cavaliere nella quale compare l’uso del colore blu (Tav. IV, figg. 16-18).
    Le forme chiuse dell’invetriata dipinta sono rappresentate in prevalenza da anse a nastro, da anse a sezione circolare ed anse a doppio tondello, su cui sono riproposti i motivi decorativi delle forme aperte, in nero manganese e rosso
o in nero manganese, rosso e verde, sempre su ingobbio (Tav. V, figg. 20-22).
    Collocabile tra i secoli XIII e XIV, questo tipo di ceramica presenta caratteristiche tali da doversi ritenere una produzione locale, sebbene non siano state rinvenute a
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Tav. V - Ceramica; 19-22: Mileto Vecchia - Abbazia.
Mileto e nelle aree circostanti fornaci o scarti di lavorazione (Fig. 7). Alcune caratteristiche decorative come i puntini in rosso e le linee sottili in nero manganese, sono tut- t’oggi presenti in manufatti locali. Ma le sue peculiarità oltre che dal disegno e dall’uso cromatico del bruno manganese e del rosso ferraccia, sono costituite dall’ingobbio che è di fatto la caratteristica di questa ceramica. Bianco e spesso l’ingobbio permette di nascondere l’argilla, facendo risaltare i colori a tal punto che queste invetriate non hanno nulla da invidiare alle coeve produzioni di protomaioliche, pugliesi e campane, con le quali è, a prima vista, addirittura facile confonderle.
    Sarebbe interessante capire dove i figuli calabresi si procuravano le argille prive di ossidi ferrosi necessarie per ottenere un tale ingobbio bianchissimo e spesso. In mancanza di documenti coevi al periodo della produzione di cui si parla, si può ricorrere alle fonti moderne che consentono di fare un po’ di luce sulla questione.
    Tra le notizie più interessanti vi è quella fornita dagli emissari reali inviati in Calabria in seguito al terremoto del 1783; da esse si desume la presenza a Mileto di «.una zona detta Timpa Janca, ricca di creta argillosa fissile, effervescente e solubile con gli acidi.» e ancora «.di un gesso lamellare che i miletini chiamano talco, ma che talco non è.» (SARCONI 1784, pp. 48-50).
    La generale assenza di protomaiolica che emerge dagli scavi è dunque giustificata dal fatto che le invetriate regionali sostituivano degnamente questa produzione giudicata più raffinata (sulla protomaiolica rinvenuta in Calabria cfr.:Di GANGI 1997 e SOGLIANI 1997). La grande diffusione delle vetrine nel XIII secolo, che gli scavi in tutta l’Italia del Sud hanno messo in luce, testimonia che le ceramiche invetriate si diffusero in maniera capillare in tutto
il regno meridionale. Questo presuppone un’attività di fi- guli sviluppata rispetto ad altre forme di artigianato, come del resto sembra apparire anche attraverso le fonti scritte.
    Le ceramiche rinvenute negli scavi del sito abbaziale, relative ai secoli XIII e XIV, diminuiscono per qualità e quantità nel periodo successivo, e contribuiscono a far comprendere il lento, ma progressivo declino dell’abbazia e dell’economia della stessa città.
    I frammenti di graffita rinvenuti sono riconducibili esclusivamente a piatti e scodelle. L’ingobbio spesso e bianco ricopre esclusivamente la parte interna dove, sotto vetrina, è stata effettuata la decorazione nei colori giallo- ferraccia e verde ramina. I motivi decorativi sono rappresentati esclusivamente da filetti cerchiati graticci e foglie (Tav. V, figg. 23-25). Databile ai secoli XIV-XV la graffita del sito abbaziale di Mileto Vecchia, per decorazione e qualità dell’ingobbio strettamente in relazione con le ceramiche invetriate, orienta verso produzioni locali, come ancora produzioni locali su devono ritenere i pochissimi frammenti di ceramica smaltata e di maiolica dai motivi decorativi del tutto simili alle precedenti produzioni dei secoli XIII-XV.
R.F.
I VETRI
    Durante gli scavi sono state rinvenute 156 tessere vitree, sia colorate sia dipinte, riferibili a vetrate (cfr.su que- st'ultime CASTELNUOVO 1994). L’analisi formale dei frammenti ha permesso di appurare che tutte le tessere furono ritagliate da lastre colorate, ottenute con il metodo del cilindro il cui spessore oscilla tra i 2 e i 4 mm (VERITÀ 1998).
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Fig. 8 - Mileto. Frammenti delle lastre di vetro decorati a grisaglia (secc. XI-XII).
I colori utilizzati sono il giallo paglierino, il verde oliva, il verde acqua, il rosa, il violetto, il bruno, l’azzurro, il blu, tutti più o meno intensi col variare degli spessori. Su tutti
i frammenti blu sono ben evidenti e meglio conservate le tracce della decorazione pittorica eseguita a grisaglia (Fig. 8b).
    Le lastre furono ritagliate in piccole tessere principalmente di forma rettangolare, ma non mancano forme quadrate, triangolari, trapezoidali, circolari e semilunari, e in seguito assemblate con supporti in piombo con sezione ad H, per costituire il disegno finale, come risulta da un frammento ritrovato durante gli scavi.
    Allo stato attuale degli studi non è possibile sapere se le piccole lastre di vetro furono prodotte in loco. L’assenza di scarti di lavorazione, in relazione ad un’area indagata relativamente limitata, non ci permette di trarre conclusioni, tuttavia l’assemblaggio e, quel che conta di più, la dipintura, potrebbe essere avvenuta sul posto. Le vetrate figurate, infatti, dovevano necessariamente essere composte a piè d’opera, in quanto una volta assemblate sono difficilmente trasportabili.
    Il maestro, a cui veniva commissionato il ciclo decorativo, disegnava le lastre col metodo della grisaglia, utilizzando cartoni che probabilmente viaggiavano con lui. Una volta eseguito il dipinto era necessario ricuocere le tessere in forni che potevano raggiungere temperature non elevate, intorno ai 500-600°, sufficienti a fondere solo gli strati superficiali e fissare così la decorazione (SBORGI 1973) . Nell’organizzazione del cantiere per la costruzione dell’abbazia di Mileto è possibile che sia stato appositamente realizzato anche un’atelier per la costruzione delle vetrate, ma soltanto il prosieguo dell’indagine archeologica potrà chiarire la questione.
    Sui bordi rifiniti la presenza di numerose ondulazioni conferma per tutte le tessere l’uso del ferro grossario. La decorazione è presente su centoventicinque tasselli e raffigura motivi geometrici, fitomorfi e antropomorfi. Su quelli dipinti in blu si riconoscono particolari dei panneggi delle vesti, mentre su un frammento di colore viola è ben distinguibile quanto rimane di un volto: un occhio con sopracciglio e parte del naso, la fronte corrucciata e alcuni riccioli della capigliatura (Fig. 8a). Il frammento grande
circa 5 cm permette, attraverso la dimensione dell’occhio, di ipotizzare la presenza di una figura, probabilmente maschile, alta poco più di un metro, apposta nella vetrata dell’abside destra. Alcune caratteristiche consentono di considerare la piccola lastra espressione bizantina del XII secolo. Confronti possibili sono in ambito calabrese, con gli affreschi di S. Adriano a S. Demetrio Corone, in Sicilia con i mosaici della cattedrale di Cefalù e quelli nella Protesi della Cappella Palatina di Palermo, in Macedonia con gli affreschi di S. Pantaleimone di Nerez.
R.F.
LE MONETE
    Delle quattordici monete rinvenute durante il saggio realizzato nel 1995, soltanto una, classificata con il numero di inventario 47, appartiene alla fase corrispondente all’epoca della fondazione della SS. Trinità o agli anni immediatamente precedenti (Fig. 9). Si tratta di un follaro della serie degli anonimi bizantini. Reca una ribattitura, molto evidente sul rovescio, poco leggibile sul dritto. È un follaro della classe C ribattuto sulla classe B (cfr. Trav., Tav. 1) 5. Secondo la tavola delle concordanze redatta dalla Travaini, illustrata alla fig. 27 del suo catalogo, potrebbe trattarsi di un follaro di Teodora (1055-1056) ribattuto su un follaro di Michele IV 1034-1041), oppure di Costantino IX (1042-1055) ribattuto sempre sul follaro dello stesso Michele IV, oppure di un follaro di Michele IV ribattuto su un follaro di Romano III (1028-1034). Il follaro in questione è molto consunto, segno di una prolungata circolazione. Tra le altre monete va segnalato il «grosso» reale di Filippo (N. I. 11): dovrebbe trattarsi di Filippo il Bello, ma ho operato un riconoscimento mnemonico, non attraverso
i cataloghi, quindi l’indicazione potrebbe essere inesatta.
    5 Per la classificazione delle monete normanne mi sono servito di TRAVAINI 1995, che ho indicato nelle schede con Trav. seguito dal numero del suo catalogo. Per le monete angioine ho utilizzato il catalogo di SPAHR 1976.
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li
Mi 13
Mi 11




Fig. 9 - Mileto. Le monete recuperate durante la campagna di scavo del 1995.
U.S.
N.I.
AUTORITÀ
ANNO
ZECCA
NOMINALE
METALLO
D_MAX
D_MIN
GRAMMI
CONFRONTI
28
47
Anonima
X-XI secc.

Follaro
Cu
26,3
25
8,7

8
11
Filippo il Bello
1268-1314

Grosso
Ar
25,4
25,2
3,57

8
13
Filippo II
1575-1598
Napoli
Carlino
Ar
20,2
19,1
2,29

8
12
Filippo II
1575-1598
Napoli
Mezzo carlino
Ar
16,6
15,8
1,02

20
30
Manfredi
1258-1266
Messina
Denaro
Biglione
16
14,5
0,56
Spahr196
20
36
Manfredi
1258-1266
Messina
Denaro
Biglione
14,4
13,9
0,47
Spahr200
20
37
Carlo I
1266-1285
Messina o Brindisi
Doppio denaro
Biglione
18,9
15,1
0,57
Spahr 45
8t
19a
Filippo II
1590
Napoli
Tornese
Cu
26
25,2
5,78

8t
19b
Filippo II
1575-1598
Napoli
Carlino
Ar
20,8
20,4
2,86

8t
19c
Filippo II
1585
Napoli
Tornese
Cu
22,1
22
6,89

8t
19d
Filippo II
1575-1598
Napoli
Mezzo carlino
Ar
16,1
16
0,92

8t
19e
Filippo II
1575-1598
Napoli
Mezzo carlino
Ar
18,2
17
1,28

8t
19f
Filippo III
1611
Napoli
Mezzo carlino
Ar
17,1
16,3
1,21

8t
19g
Ferdinando I d'Aragona
1412-1416
Messina
Denaro
Cu
14,1
13
0,5
Spahr16
Molte tra le monete d’argento sono state stozzate per recuperarne il metallo prezioso. Si da in Fig. 9 una tabella riepilogativa.
    Di recente nel Museo Nazionale di Mileto è stata esposta una collezione composta da trentanove monete, dono di un privato, il signor Vittorio Carlizzi, che ha voluto in tal
modo rendere omaggio alla nuova istituzione museale. Si tratta di monete raccolte dai contadini nelle campagne e nell’area della vecchia Mileto. Ad un primo rapido esame esse risultano piuttosto interessanti, nonostante non si possa indicare l’ubicazione esatta dei ritrovamenti ed il complessivo contesto. Tra queste monete vi sono ben otto follari
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N.I.
NOMINALE
AUTORITÀ
METALLO

SPESSORE
D_max
D_min




Gr
mm
mm
mm
1
Asse Romano

Br
27
3,6
36
34,9
2
Follaro bizantino classe 4(C)
Anonima
Cu
7,5
1,6
28,8
26,3
3
Follaro bizantino classe 4(C)
Anonima
Cu
5,5
2,1
27,2
22,0
4
Follaro bizantino classe 4(C)
Anonima
Cu
7
1,8
28,5
27,0
5
Follaro bizantino classe 4(C)
Anonima
Cu
7,5
2,1
28,3
25,0
6
Follaro bizantino classe 4(C)
Anonima
Cu
6,5
1,7
30,9
28,6
7
Follaro non riconoscibile

Cu
8
2,7
27
25,5
8
Follaro bizantino classe 4(C)
Anonima
Cu
6
1,8
26,1,
25,1
9
Peso o sigillo?

Pb
18
4,0
28,1
26,8
10
T rifollaro (T rav. 160)
Ruggero I
Cu
11
3,1
28,2
26,5
11
Grano

Cu
3,5
1,2
22,1
22,0
12
Illegibile

Cu
4,5
2
23,8
23,2
13
Grano

Cu
4,5
1,3
24,7
24,5
14
Follaro bizantino classe 4(C)
Anonima
Cu
6
1,7
27
23,6
15
Follaro bizantino classe 10(I)
Anonima
Cu
3
1,3
26,7
20,4
16
Follaro normanno (T rav. 156)
Ruggero I
Cu
3
1,4
24,1
21,7
17
Non riconoscibile

Cu
2,5
1,1
24,1
22,7
18
Follaro normanno (T rav. 156)
Ruggero I
Cu
2
1,05
26,3
21,7
19
Grano
FilippoIV
(1615?)
Cu
5
1,7
23
19,8
20
Follaro bizantino classe 4(C)
Serie Anonima
Cu
6
1,5
26,7
23,2
21
Grano
«Carolus I Ro
Imp.Rex
aragon»
Cu
3
1,1
20,6
20,05
22
Moneta greca

Br
5,5
3,0
20,6
19,4
23
Non riconoscibile

Br
3
1,9
17,4
16,4
24
Non riconoscibile


2,5
1,4
18,8
15,2
25
Follaro Normanna (Trav. 192)
Ruggero II
Cu
2
1,2
16
15,4
26
Non riconosciuta (aragonese?)

Cu
0,5
0,6
18,3
17,5
27
Non riconoscibile


3
1,6
19,1
15,3
28
Moneta normanna (Trav. 245)
Ruggero II
Cu
1,5
1,3
14,9
14,6
29
Denaro
Filippo (?)
Ar.
2
0,6
2,6
1,9
30
Denaro stati crociati?

Ar.
0,5
0,2
17,2
17,
31
Moneta non riconosciuta
Probabilmente del XVI secolo
Cu
0,5
0,4
14,7
13,7
32
Grano
XVI/XVII
secolo
Cu
1
1,2
14,7
14,5
33
Follaro normanno (Trav. 368)
Guglielmo II
Cu
1
1,1
16,4
14,8
34
Non riconoscibile

Cu
2
2,1
17,7
16,3
35
Non riconoscibile

Cu
1
1,6
14,6
14,4
36
Non riconoscibile

Cu
0,5
0,8
14
13,7
37
Non riconoscibile

Cu
0,5
0,9
14,3
14,2
38
Non riconoscibile (angioina?)

Cu
0,5
0,4
14,8
13,1
39
“Minimo” vandalico

Cu
0,5
1,6
10
9,1
N.B. Per il peso è stata utilizzata, nel caso delle monete della collezione Carlizzi una bilancia elettronica che ha permesso soltanto l’arrotondamento al mezzo grammo.
della serie degli anonimi bizantini, tutti della classe C, a cui si potrebbe aggiungere l’analoga moneta rinvenuta durante gli scavi (N. I. 47). Si tratta di follari coniati entro la prima metà del secolo XI, cioè a dire monete che circolavano al momento della conquista normanna della città. Come si è in altra sede discusso la presenza molteplice di follari in un sito potrebbe comprovare l’esistenza di un abitato consistente, se non proprio di una città (PEDUTO 1991). Complessivamente i follari della collezione privata sono tredici. oltre agli otto follari bizantini suindicati ve ne sono altri tre di Ruggero I e due di Ruggero II. Non vi è dubbio che per la storia di Mileto tali follari sono interessan
ti. I tre follari di Ruggero I apparterrebbero tutti alla zecca di Mileto: due sono, nel catalogo della Travaini, con il n. 156 ed terzo con il n. 160.
    Il rinvenimento di tali ultime monete potrebbe essere utile per stabilire la presenza o meno di una zecca normanna a Mileto, questione discussa da tempo, ma che non è stata mai conclusa (TRAVAINI 1995, pp. 41-43). Fra le monete della collezione privata va segnalato un minimo vandalico (N.I. 39) molto consumato che, all’apparenza, reca
il monogramma di Atalarico. Nella tabella seguente sono presentate le monete della donazione Carlizzi.
P.P.
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